“Così come impariamo a riconoscere noi stessi in uno specchio, il bambino diventa consapevole di sé stesso vedendo il suo riflesso nello specchio costituito dalla coscienza che le altre persone hanno di lui”
(K. Popper, J. Eccles, L’Io e il suo cervello, 2001)

di Giuseppe Ciardiello*

Il bisogno del contatto

Il “Disturbo da Attacco di Panico” (Dap) continua a dar luogo a considerazioni e punti di vista diversi ed oggi, tra gli addetti ai lavori, è molto più facile incontrarsi nella sua definizione sintomatica che in quella delle cause che possono determinarne il disturbo.

Per la verità ci si incontra anche nella definizione diagnostica e si ritiene che l’assenza di cause oggettivamente individuabili cui far risalire la “destrutturazione”, sia uno degli elementi principali per questo disturbo, altrimenti riconducibile ad altri quadri.

I pochi impianti di ricerca sembrano sostenere l’aspetto relazionale di questo disturbo (Infrasca, 2001, pag. 94) che poi, nella descrizione nosografica, continua invece ad essere ricondotto ad una insufficiente organizzazione difensiva di natura intrapsichica. Tale dicotomia di vedute si ripropone come un conflitto teorico che, a dispetto dell’analisi dettagliata di Fonagy (Fonagy, 2001) che suggerisce la necessità di un incontro tra epistemi, nella lettura diagnostica porta a privilegiare per il Dap la visione introspettiva di un’individuo incapace a sostenere l’aumento della tensione psichica (Infrasca, ib., pag.100); questo quadro propone il soggetto “dapista” come elemento passivo del disturbo ed il sintomo legato ad esperienze prenatali.

Un altro punto di vista potrebbe invece considerare l’aggressività, e la sua gestione, come elemento fondante di questo disturbo e vederlo come attivamente prodotto dal soggetto. È il punto di vista proposto in questo articolo; è ripreso per approfondimento da quelli precedenti (vedi www.lidap.it) in cui il Dap è visto ulteriormente come esito di un evento relazionale coprodotto nel rapporto con le primarie figure genitoriali. Questo punto di vista penso richieda precisazioni che, ampliando lo spettro visivo, possono contribuire ad una maggiore definizione diagnostica e descrittiva.

Il Dap e la cura; il controllo.

Uno degli atteggiamenti che suscitano i portatori di Dap nelle figure d’aiuto, è quello di attivarsi nel trovare ed elaborare strumenti e metodi sempre più efficaci per il controllo dell’ansia. È come se chiedessero continuamente di essere forniti di ulteriori capacità di “controllo”, di conoscenze tecnico/operative per meglio gestire l’ansia, la coordinazione, l’organizzazione affettiva, cognitiva, fisiologica così da riuscire finalmente a dar luogo ad una personalità “competente”. La risposta degli operatori corrisponde all’atteggiamento e all’intento fatto proprio anche dai gruppi di auto-mutuo aiuto all’interno dei quali si tenta un “passaggio al gruppo” delle competenze individuali acquisite in analoghe esperienze.

Sorvoliamo per il momento sulla validità di questo metodo che, pur avvalendosi di due costrutti evolutivamente fondamentali, la generalizzazione e l’assimilazione, spesso non tiene conto del fatto che in alcuni casi la loro utilizzazione ha bisogno di essere contestualizzata e dinamizzata a rischio, altrimenti, di un utilizzo inappropriato. Può accadere che la generalizzazione sia applicata impropriamente e l’assimilazione può rivelarsi eccessiva determinando un’aggiunta e un accumulo di sintomi piuttosto che un loro allentamento e diluizione. In termini di ansia e attaccamento si può arrivare ad imparare e assimilare i comportamenti disfunzionali piuttosto che disimpararli o sostituirli.

Questo accade perché, anche se inconsapevolmente, le persone affette da Dap forzano la relazione d’aiuto in una direzione simil didattica tentando in questo modo una scotomizzazione degli affetti e, se tale modalità non è indagata come istanza, a volte reciproca, relazionale rischia di diventare un futile gioco di costante monitoraggio di acquisizione tecnica.

La cautela da usare nei confronti delle persone affette da Dap è quindi quella di metterli sull’avviso del fatto che, anche se a loro può sembrare il contrario, di fatto non sono interessati all’acquisizione di competenze tecniche ma che queste richieste sono un pretesto usato come strumento di relazione. Quello che vogliono è affetto, solo che questa richiesta passa attraverso quella delle competenze.

È come se la domanda fosse mal posta, oppure come se la risposta dell’operatore fosse deviata dal proprio profilo relazionale e fosse dicotomizzata. A volte in questa risposta possiamo scorgere un analogo disturbo della domanda come indice di una matrice relazionale comune.

Più incisivamente possiamo affermare che le persone con disturbi di panico sono interessate all’apprendimento pratico, intendendo per pratico “esperienziale”, delle funzioni relazionali; e per essere ancora più esplicito direi che è sempre maggiore l’impressione che il desiderio di queste persone sia quello di “sperimentare” attraverso il contatto, fisico e psicologico, la possibilità di distendersi e abbandonarsi in una relazione. Nella pratica clinica, quando questo stato si realizza, rappresenta la prima vera prova abbandonica di una persona nello stato di adulto. E rappresenta anche il primo riconoscimento (nel corpo, di una conoscenza arcaica dimenticata) di un atto riconducibile ai nostri primi momenti di vita; quello della fiducia.

È doveroso allora chiederci cosa intendiamo per fiducia?

Parlando del Dap nel Dap non possiamo assumere un punto di vista meramente cognitivo perchè questo disturbo si esprime fondamentalmente nel corpo, col corpo, attraverso il corpo per raggiungere gli altri corpi. Quindi dal punto di vista corporeo non possiamo che intendere la fiducia come un “atto” (un’azione) piuttosto che un comportamento; e non possiamo intenderla come un fatto stabile e definitivo. Possiamo però pensarla come un processo; per esempio come il sentimento che viene alimentato dalle relazioni in corso e che dipende dalle conferme alle varie aspettative relazionali. Possiamo quindi considerare la fiducia come un evento costantemente emergente da momenti evolutivi/relazionali e, guardando allo sviluppo neonatale, possiamo osservarne la tenacia e il valore per la sopravvivenza già nelle primissime forme di attaccamento, come ci testimoniano le osservazioni anche sperimentali di diversi autori (Bowlby, Anzieu).

Lasciandoci sedurre da una tentazione ancora più estensiva, possiamo pensare di rintracciare i suoi precursori fin’anche nelle esperienze prenatali dove forse potremmo supporre già in atto i precursori dei meccanismi autoregolatori dell’esperienza relazionale individuati da Beebe e Lachmann (2003). Ricerche recenti infatti testimoniano di ampie competenze prenatali in cui i bambini reagiscono agli agenti esterni (Righetti, 2005); e malgrado l’estrema dipendenza e l’assoluta incapacità di difesa, i nuovi elementi dai bambini vengono vissuti con curiosità piuttosto che con timore, almeno fintanto che gli stimoli non sono avvertiti d’intensità fastidiosa o dolorosa.

In ogni caso quello che possiamo dire con una buona dose di certezza è che le esperienze neonatali prendono inizio da comportamenti e stati fisiologici in cui è naturale l’abbandono fiducioso al liquido/corpo (della madre) che sostiene e con la quale è già in atto una relazione.

È possibile che questo stato sia in qualche modo registrato dall’organismo e che possa rappresentare la base di “appoggio” su cui si fonda la convinzione arcaica della legittimità, del diritto e della convinzione di trovare qualcosa o qualcuno “in/su cui potersi abbandonare”.

Stiamo chiaramente parlando di sensazioni fisiche e corporee che, anche se il periodo evolutivo che stiamo prendendo in considerazione non ci consente di parlare di codificazione cognitiva, e quindi di comprensione cosciente, possiamo immaginare che il bambino registri in qualche modo e arrivi a rappresentarsele come modelli che poi, successivamente alla nascita, saranno confrontate con le vere esperienze relazionali.

In ogni caso è reale che quelle primarie sono esperienze che possono essere considerate come scambi con un altro da sé interattivo e diverso dall’oggetto inanimato; inoltre questi scambi restano diversamente attivati, dal concepimento in poi, e possono proiettarsi, nella forma di braccia che sostengono e di corpi che comunicano anche attraverso tensioni muscolari, forme, ritmi, tempi, odori che colorano i vissuti di “impressioni” che si incarnano nel bambino.

Queste impressioni sono le emozioni e i sentimenti vissuti in rapporto all’altro della relazione (Persico, 2002).

Un evento significativo come la nascita segna un confine definito tra due stati che non sappiamo come identificare o definire se non immedesimandoci nel bambino. Possiamo immaginare che, ancora nel ventre materno, le sensazioni di sostegno vissute nel contatto col liquido amniotico, si trasferiscono alle pareti addominali materne e si può ulteriormente immaginare che quelle stesse sensazioni siano ricercate, successivamente alla nascita, nel contatto corporeo con la madre o con chi si prende cura del bambino. Se stessero così le cose non ci meraviglieremmo se nei contatti successivi il bambino cercasse di ritrovare le sensazioni termiche di morbidezza, vibrazioni e odori precedenti; e sembra sia proprio quello che accade (Righetti, 2005). Sono queste tendenze dei bambini piccoli che ci fanno ipotizzare che la prima forma di “abbandono all’altro” sia da mettere in relazione all’abbandono alle braccia di chi si prende cura di lui. È per questo che parliamo di questo abbandono come di un prolungamento di quello analogo vissuto nell’utero. E per questo non ne parliamo come un evento, bensì come un processo fisico-corporeo che può costantemente modificarsi a seconda delle esperienze vissute nell’evoluzione allo stato adulto.

Se l’aspettativa di queste esperienze viene delusa, in cui per esempio la capacità o il desiderio di chi si prende cura del bambino non ha voluto o non ha saputo o non ha potuto incontrare il suo bisogno, l’organismo si può organizzare in una modalità di apprendimento (carattere) e nell’assunzione di una postura (atteggiamento relazionale e modalità di occupazione dello spazio) di evitamento dell’abbandono che può diventare un modo sia corporeo sia mentale di autosostegno. Può nascere allora l’obbligo di tenersi su da soli ed imparare a fare a meno degli altri (Persico, 2002). Oppure, come nei casi delle “dipendenze affettive”, si può verificare l’innesco di un vissuto terrorifico di abbandono per ogni minimo evento di separazione.

In pratica le cause di questi vissuti drammatici possono essere ricondotte al prenatale o al postnatale ma sono ugualmente riconducibili ad eventi relazionali che come tale, poi diversificano il Dap, dalla depressione o dalla dipendenza affettiva.

È facile intuire quanto questo atteggiamento derivante dalla delusione può essere carico di una tensione che, se ripetuta negli anni, può diventare e poi conservare i caratteri dell’“ostilità” e può spingere ad assumere un comportamento guardingo, cauto, costantemente sospettoso. Ma può anche far diventare sensibili alle lusinghe, alle moine dei corteggiatori. Può stimolare il desiderio di sedurre ed essere sedotto creando un sottostante conflitto col timore della dipendenza.

La reazione a questi eventi sarà diversa e, mentre nel caso di persone affettivamente dipendenti, l’aggressività non si trasforma in rabbia ma viene vincolata dentro di sé con un’attenzione costante alla mediazione relazionale (è la carica enorme di questo bisogno vitale che rende le persone possibili vittime), in quello che sarà l’attacco di panico l’energia vitale, aggressiva da “adgredior”, prende la forma della rabbia volgendosi contro la capacità aggregante ed integrativa dell’io che è probabilmente vissuta come simbolo della relazione e di tutto ciò che lega. Dal punto di vista psicofisiologico l’Io che lega è a sua volta prodotto dalle funzioni sistemiche integrate ed è per questo che l’autoaggressività, pur intenzionata a colpire solo un oggetto esterno nella materia aggregante, di fatto colpisce anche il soggetto in quanto l’Io esiste solo nella sua funzione integra.

Possiamo pensare che questo sia uno dei comportamenti appresi, dalle persone individuate come portatrici di Dap, nelle ricerche che individuano nell’assenza genitoriale i fattori di rischio (Infrasca, ib, pag. 94); a livello corporeo riscontriamo l’attivazione di un tono muscolare superiore alla semplice attività antigravitaria, forse proprio per combattere questo effetto di rottura del legami, che dà un aspetto comportamentale rigido e che definiamo “ipertonico”.

E proprio questo atteggiamento, che richiede un notevole e costante investimento energetico, possiamo ipotizzare che diventi responsabile di un altro evento scatenante che comunemente viene visto come scatenante il panico: l’esaurimento delle risorse per il contenimento dello stress.

Infatti nel Dap le manifestazioni del disturbo si presentano e si reiterano proprio in occasione di momenti che richiedono grossi impegni energetici, sia fisici sia mentali. Impegni che si rivelano anche come contratture corporee suggerendo ulteriormente che potrebbe darsi sia proprio questa la dinamica che induce al punto di vista che fa guardare al dap come al problema del controllo.

La differenza proposta dal presente ragionamento rispetto alle consuete ipotesi è che l’esaurimento energetico dipende dall’aumento dell’autoaggressività che a sua volta dipende dal sentimento vissuto nei confronti delle figure importanti. Più aumenta la frustrazione più aumenta la rabbia, più o meno inconscia, più aumenta l’aggressività autodiretta, più aumenta la sensazione di non-integrazione e più aumenta il bisogno di irrigidirsi per tenersi insieme e più aumenta la difficoltà a lasciarsi andare.

Il controllo diventa così il tema principale nel vissuto personale. Il controllo nei confronti dei sentimenti profondi.

E per questo l’uso del medicinale diventa così controverso ed è così diversificato sia l’utilizzo che se ne fa sia la gamma utilizzata.

Ma impostare un lavoro terapeutico esclusivamente sull’aumento delle competenze di controllo, anche se in principio può sortire un qualche effetto, poi si rivela fallimentare se non è accompagnato da un impianto psicoterapeutico.

Un ulteriore momento riconducibile all’aspetto relazionale, e che possiamo considerare più evoluto nella dinamica della fiducia, è quello in cui assistiamo ad uno spostamento energetico a livello oculare (occhi) in cui il senso della visione diventa la funzione sensoriale privilegiata da una certa epoca evolutiva in poi.

Noi tutti in genere guardiamo le persone in modo diverso da quando guardiamo gli oggetti; dagli inizi della vita negli occhi degli altri cerchiamo la conferma delle varie manipolazioni oggettuali come negli occhi delle figure di cura il bambino cerca la fiducia. Negli occhi di queste figure è cercata la conferma della stabilità e del desiderio della relazione, sono cercate le prime certezze e, di lì a poco, ci si evolve nella ricerca delle prime conferme di ciò che si è capaci, di ciò che si è e di ciò per cui si è e si ritiene e si desidera essere competenti.

Così, come prima della nascita, anche negli anni successivi la comunicazione continua su un piano corporeo e gli occhi veicolano messaggi usando le capacità fisiologiche di cui sono portatori (movimenti di contrazione e decontrazione pupillare e dei vari muscoli del distretto oculare) e che rendono conto dell’espressività del volto compartecipando con altri distretti muscolari ed epidermici.

Nei casi di Dap è possibile che anche in questa seconda fase evolutiva (considerando primaria quella uterina) si sia verificato che l’emergenza della fiducia sia stata tradita. È possibile si sia verificato che gli occhi dell’altro, che dovevano comunicare la certezza e il piacere di “potercela fare” nel confronto con le continue e progressive difficoltà della vita, si siano svuotati (per depressione, per disinteresse, perché attratti da altro o per dovere verso altri impegni) o anche solo distolti. È possibile che queste persone si siano scoperti “soli” a cercare di capire il motivo e il senso di questa solitudine e a tentare in tutti i modi immaginabili di ricostruire e finalmente “meritare” questo contatto.

Diventa difficile immaginare una possibilità di controllo oculare in queste condizioni. Una difficoltà innanzi tutto relazionale non può che passare principalmente da messaggi oculari perché la cosa più difficile è proprio sostenere lo sguardo di chi ci è vicino quando si è vissuti da sentimenti di rabbia anche se inconsapevole [1].

Da queste osservazioni nasce la necessità di suggerire una forma di cautela alle persone affette da Dap.

Pur riscontrando in queste persone l’effettiva necessità di un intervento psicoterapeutico, e pur essendo il disturbo riconducibile alla relazione e ritenendo quindi tale intervento l’unico capace di un ripristino della normalizzazione relazionale, l’esperienza clinica sembra suggerire che il loro interesse nei confronti della psicoterapia non sia reale.

Proprio il tema del controllo rende queste persone non sempre veramente interessate all’analisi del proprio comportamento e delle dinamiche delle relazioni in corso, quanto invece lo sono nei confronti dell’acquisizione di strumenti e competenze che possano renderle più capaci del controllo dell’Io (e anche del disturbo, attraverso la fortificazione dell’Io) e, di riflesso, della relazione. In tal modo quell’Io dinamicamente aggredito è visto e presentato come oggetto da fortificare ed è proprio questo, a volte, a decretare il fallimento di qualunque intervento in una relazione di cura colludente con tale progetto. Più l’io si fortifica, e acquista in capacità di lettura e controllo del mondo relazionale, più acquista anche in scaltrezza e più diventa capace di aggressione, autoaggressione e indifferenza.

Ad un’indagine approfondita della dinamica terapeutica, queste persone possono rivelarsi interessate solo ad un aspetto strumentale della relazione e possono trovarsi a colludere con modalità terapeutiche specifiche pur di ottenere maggiori capacità gestionali. Cioè possono vivere la psicoterapia non come strumento per conoscersi meglio, ma come occasione per acquisire maggiori strumenti di controllo relazionale.

Nell’acquisizione di questi strumenti non c’è niente di male quando il fine è quello di realizzare migliori rapporti interpersonali; in questo caso però si ha l’impressione che lo scopo sia quello di avere un maggior potere contrattuale nelle relazioni e un maggior controllo nella scotomizzazione dei sentimenti profondi.

Allora coloro che soffrono del disturbo di panico devono essere messi sull’avviso della possibile presenza, in loro stessi, di una profonda incapacità a mettersi in discussione e che è possibile abbiano strutturato negli anni una convinzione circa la legittimità dei loro bisogni, anche se irrazionali ed eccessivi; bisogni di cui magari non si rendono conto perché normalizzati nella quotidianità ma che se fossero rivisitati alla luce del loro originario bisogno d’amore e alla luce della loro profonda e intima solitudine, potrebbero portare a maggiore consapevolezza il loro terrore di rivivere il rischio della perdita del senso di realtà relazionale, che hanno già sperimentato e che ha contribuito a costruire la loro esistenza.

Tutto questo complica il lavoro psicologico e analitico. L’aggressività di cui queste persone si sono caricate negli anni, e che è colpevole dell’innesco del Dap, è troppa e tutta rivolta contro le figure affettivamente significative e a quello che dentro di loro queste persone rappresentano. L’antica aggressività naturale (adgredior) caratterizzata dalla spinta verso l’altro, il gioco, l’amore, la relazione, si è persa negli atteggiamenti mentali e corporei irrigiditisi nel bisogno di sopravvivere affettivamente.

Queste dinamiche possono arrivare a prendere vie perverse così che, quando nell’età adulta si crea l’occasione perché cominci a formarsi la stima e la fiducia nei confronti di coloro che si propongono come agenti di cura, durante una psicoterapia o supporti e sostegni di qualsiasi tipo, i portatori e le portatrici di questo disturbo possono cominciare ad avvertire sentimenti conflittuali di insofferenza, se non proprio di antipatia e odio, oltre che di stima e invidia. Le figure d’aiuto vengono sentite, viste e percepite come detentori di quelle competenze relazionali (intese come “capacità di controllo dei propri sentimenti e di quelli degli altri”) che vorrebbero loro e che hanno sempre perseguito. Le persone che aiutano possono diventare i catalizzatori di tutta questa aggressività perché sono vissuti come replicanti le originarie figure care (genitoriali) da cui i portatori di Dap si sono sentiti traditi ed è addirittura possibile che con queste attuali figure venga replicata l’antica “prova di affidabilità” rendendo il rapporto esasperante al solo scopo di verificarne la sostenibilità reciproca.

Nel “dappista” allora possiamo leggere l’incapacità a perdonare quell’antico tradimento ed è quest’incapacità a caratterizzare il Dap come disturbo relazionale.

Proviamo a concludere sinteticamente: nel disturbo di panico possiamo osservare la sovrapposizione di due vissuti: uno relativo alle competenze dell’Io, quindi legato all’aspetto narcisistico di chi ha bisogno di arricchire un bagaglio di capacità per essere o dimostrarsi competente (come si ritiene debba essere un adulto). Questo aspetto è riferito anche da molti altri autori che si rifanno anche ad osservazioni sistematiche (Infrasca, 2001); l’altro aspetto è relativo alla persecutorietà proiettata che darebbe ragione dell’aggressività autodiretta causa del disturbo.

È da quest’ultimo aspetto che possiamo cogliere un cambiamento di posizione nel modo in cui considerare il disturbo di panico.

In genere considerata una persona fragile e incapace di sostenere un aumento di situazioni stressanti, possiamo provare a pensare ai “dappisti” anche come persone molto tenaci e costantemente impegnate a “stringere i denti” e a farsi forza. Sarebbero persone attive e in un certo senso artefici del disturbo piuttosto che passive e vittime di una deficienza costituzionale, e proprio quest’attività costantemente sui limiti potrebbe essere la causa dell’esaurimento, anziché la supposta patologica carenza energetica.

L’aspetto narcisistico non si esaurisce nell’indurre uno stringere i denti ma complica ulteriormente il quadro concorrendo a rendere queste persone indisponibili ad una psicoterapia tanto quanto invece le predispone ad accogliere con favore l’apprendimento di tecniche comportamentali e relazionali facilitanti sia la comunicazione sia il controllo sociale e personale.

Un vero aiuto per queste persone allora dovrebbe passare attraverso il riconoscimento del fatto che in loro è possibile esista l’erronea convinzione che il loro comportamento è adeguato, normale e che non c’è alcuna cosa da cambiare nel loro carattere. Che in profondità pensano che quello che c’è di sbagliato nelle relazioni che instaurano è sicuramente dovuto agli altri e al loro modo di essere.

Queste altre persone, che possono anche essere persone care, arrivano ad essere considerate ostili e affettivamente avare o incapaci.

E per tenerle a bada, tenendo a bada la relazione nel suo complesso e gli aspetti di sé che possono sfuggire al controllo, così da mostrare una maggiore padronanza e competenza, lo strumento principe è il medicinale. Ma a volte, pur essendo spesso indispensabile, è anche il modo migliore per tenere distanti e silenti i sentimenti.

È con quest’ultima convinzione che gli operatori si ritrovano spesso a colludere rischiando l’instaurarsi di un giro vizioso all’interno del quale l’apporto medico diventa indispensabile e dominante diventa la dinamica del controllo che tanto avvicina il problema del Dap a quello delle “dipendenze affettive”.

[1] Mi sembra di poter ricondurre queste osservazioni ad alcune note di Kohut: “L’esibizionismo del bambino deve essere gradualmente desessualizzato e subordinato alle sue attività rivolte a una meta; ciò si raggiunge meglio attraverso le frustrazioni graduali, accompagnate da sostegno amorevole, mentre i vari atteggiamenti manifesti e latenti di rifiuto o di eccessiva indulgenza (specialmente l’amalgama di essi o il loro rapido e imprevedibile alternarsi) costituiscono il terreno emotivo per una vasta gamma di disturbi. Sebbene i risultati dannosi siano molto svariati, andando da un’ipocondria grave a forme lievi di difficoltà, parlando da un punto di vista metapsicologico si tratta sempre di stati di aumentata tensione esibizionistica con modalità di scarica incomplete e aberranti. In tutte queste condizioni l’Io cerca di assicurarsi la partecipazione dell’oggetto nell’esibizionismo del sé narcisistico, ma, dopo il rifiuto da parte dell’oggetto, la scarica libera di libido narcisistica viene a mancare; invece di una piacevole soffusione della superficie corporea, vi è il calore di uno spiacevole arrossire; invece della piacevole conferma del valore, della bellezza e dell’amabilità del Sé, vi è una vergogna penosa.” da Heinz Kohut; “La ricerca del Sé”, Boringhieri, 1982. pag. 92.

*Psicologo, psicoterapeuta, consulente Lidap – Roma

BIBLIOGRAFIA

B. Beebe e F. M. Lachmann, “Infant Research e trattamento degli adulti”, Raffaello Cortina ed., 2003.

J. Bowlby, “Costruzione e rottura dei legami affettivi”, Raffaello Cortina ed., 1982.

P. Fonagy, “Psicoanalisi e teoria dell’attaccamento”, Raffaello Cortina ed., 2001.

R. Infrasca, “Il disturbo da attacchi di panico. Dalla comprensione alla terapia”, F. Angeli ed., 2001.

G. Persico, “La ninna nanna. Dall’abbraccio materno alla psicofisiologia della relazione umana”, Edizioni Universitarie Romane ed., 2002.

P. L. Righetti, “Sostegno psicologico in gravidanza”, Magi ed., 2005.

V. Ruggieri, “L’esperienza estetica. Fondamenti psicofisiologici per un’educazione estetica”, Armando Ed., 1997. H. Kohut, “La ricerca del Sé”, Boringhieri ed., 1982.

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