di Giuseppe Ciardiello*
Capita sempre più spesso di leggere articoli e testi che si occupano di panico e dei suoi aspetti fobici. Finalmente il Dap è entrato nella categoria delle disfunzioni e dei disturbi considerati “veri” e le persone che ne soffrono non devono più temere di essere accusati di simulazione.
Di questa accusa quasi tutti i “dappisti” hanno fatto esperienza e solo poche persone, forse quelle di “ultimissima generazione”, sono riuscite a scamparla. Finalmente il Dap è diventato di comune comprensione; gli stessi portatori ne riconoscono le manifestazioni e non corrono più il rischio d’essere guardati male e accusati di volere solo attrarre l’attenzione.
Il Disturbo da Attacchi di Panico è un disturbo molto giovane e solo in questi ultimi anni gli psicologi e gli psichiatri si stanno confrontando con la sua dinamica, le sue espressioni e le sue remissioni. È talmente giovane che a volte è ancora difficile definirne i confini tanto che le sue espressioni più immediate, mancamenti, vertigini, tachicardia, tremito, paura di perdere il controllo, senso di soffocamento ecc., sono spesso insufficienti per una corretta diagnosi differenziale.
Come nella consulenza per la diagnosi, anche nell’ambito della cura si sta ancora cercando di capire quali possono essere i metodi più efficaci. Per lo stesso disturbo ad alcuni si ritiene necessario prescrivere o suggerire l’intervento contemporaneo di diverse figure professionali (medico, psichiatra, psicologo, psicoterapeuta); per altri può essere sufficiente il gruppo di Auto Mutuo Aiuto. Per altri ancora il gruppo può rivelarsi insostenibile.
Questa variabilità induce a pensare che il trattamento del Dap è ancora effettuato con metodi “sperimentali”, per lo meno nel senso che non è ancora stata detta nessuna parola definitiva sulla genesi, sullo sviluppo, sulla remissione e sui legami che uniscono questi tre aspetti o che portano dall’uno all’altro. Quello che sembra confermato è che il Dap è innanzi tutto un “disturbo relazionale”.
Quest’ultima ipotesi si basa sul fatto che alcune manifestazioni sintomatiche si legano ad eventi sociali (agorafobia, fobia sociale, paura della solitudine o della frequentazione di luoghi solitari) e sul fatto che le stesse manifestazioni sono così eclatanti, e i portatori le usano in maniera tale, che sembrano proprio profilarsi come richieste d’aiuto.
Nella sua dinamica espressiva e comportamentale, il disturbo di panico obbliga alla relazione; obbliga a quelle richieste che a volte, per l’evidente assenza di traumi, vengono interpretate come richieste di attenzione, se non proprio come atteggiamenti esibizionistici. Ignorare il senso relazionale di questi sintomi comporta un rischio molto importante sia per chi si occupa della cura sia per chi vive l’esperienza del DAP; il rischio cioè di lasciarsi interessare e preoccupare solo dalla remissione sintomatica col pericolo di eliminare, col sintomo, uno degli strumenti più efficaci di relazione e di denuncia del disturbo corrispondente .
L’attenzione al sintomo è un atteggiamento che noi terapeuti assumiamo a volte perché costretti dalla gravità della sofferenza delle persone. Altre volte magari ci viene spontaneo perché fa parte della nostra indole, del nostro modo d’essere e l’eliminazione della sofferenza è uno dei motivi per cui abbiamo scelto questo mestiere. Altre volte ancora, sono gli stessi pazienti a chiedere d’essere liberati dal sintomo e questo può sollecitare, nel terapeuta, una strana tensione che si mischia al bisogno di creare un’alleanza che può tornare utile allo stesso paziente. Altre volte invece può capitare di vivere la sopravvivenza del sintomo come una dimostrazione della nostra inefficacia e possiamo vivere il confronto terapeutico come una sfida narcisistica.
Insomma, anche noi terapeuti siamo figli di questi tempi e il tempo che viviamo è ancora il tempo della medicina classica che si proietta nel nostro immaginario stimolandoci all’onnipotenza. In questa fantasia un medico “bravo” toglie il dolore e la sofferenza, e il sintomo, preso come il nemico, rischia d’essere scambiato per il disturbo anziché essere visto per quello che è: un indicatore della presenza di un disturbo relazionale.
Le Terapie Corporee non sono estranee a queste premesse ma, poiché il comportamento è innanzitutto finalizzato alla comunicazione, la sua osservazione le induce naturalmente all’attenzione relazionale.
Fino a qualche anno fa non era ben chiaro il tipo d’intervento che queste terapie perseguivano, o non lo era per i non addetti ai lavori. Gli aspetti più conosciuti erano quelli tecnico operativi che si basavano, e si basano tuttora, sulla lettura delle azioni, dei gesti, atteggiamenti, posture e comportamenti.
Attualmente molti aspetti si sono chiariti ed è diventato evidente che occuparsi degli aspetti corporei, non vuole dire che vengono trascurati quelli dinamici e psicologici.
Le Psicoterapie Corporee hanno privilegiato un approccio al “corporeo” preoccupandosi di ciò che è visibile dell’individuo. Considerano il corpo, che si muove nell’ambiente, sempre in relazione ad altri e a situazioni “altre” e come espressione dell’organismo complessivo, perciò anche di ciò che è meno visibile.
L’atteggiamento corporeo, quindi la gestualità, la postura, la mimica, il modo di camminare, di parlare, di guardare sono considerati comportamenti tesi alla relazione, alla comunicazione e sono visti come eventi comportamentali complessivi di un organismo che tende ad esprimersi nella sua totalità. Queste espressioni sono finalizzate a realizzare una relazione anche quando, e se, il comportamento assume aspetti che definiamo disturbati e/o patologici. Il corpo “è” in quanto relazione, quindi anche il movimento nello spazio, di una persona in relazione all’altra, è “linguaggio corporeo” e perciò ogni manifestazione comportamentale, e ogni movimento, è un tentativo di comunicazione e l’espressione del bisogno di relazione.
Secondo il punto di vista corporeo, quando osserviamo il comportamento di un organismo e lo consideriamo complessivamente, dobbiamo riconoscere un’unica identità alle sue diverse funzioni e dovremmo conservare questo atteggiamento sia quando tentiamo di formulare un’interpretazione delle sue funzioni mentali, sia quando ne osserviamo i comportamenti esibiti.
Riconoscere l’identità delle funzioni di un organismo prevede di considerare la contemporaneità del loro attuarsi nelle diverse espressioni, senza stabilire ordini gerarchici che ne compromettano l’integrità funzionale.
Un ulteriore vantaggio del considerare l’organismo umano integrato, olistico nel senso di Kepner (Kepner, 2006), è che diventa maggiormente possibile comprendere l’effetto delle varie attività espressive. Per esempio le attività artistiche, quelle ludiche e a volte anche la prescrizione di passeggiate, la frequentazione di palestre di ginnastica e ballo, circoli sportivi, centri benessere, luoghi di socializzazione, possono essere utili ausili per la risoluzione di situazioni problematiche come quelle di cui ci stiamo occupando. Anzi a volte un lavoro teso solo alla comprensione e alla modifica degli atteggiamenti mentali, delle dinamiche e delle resistenze, con l’unico uso del metodo verbale, si può rivelare più difficoltoso, più lungo e meno efficace di un altro che si pone in un’ottica integrata, in cui corpo e mente sono considerati un’unica cosa e le attività ludiche e socializzanti sono viste anche come prescrizioni terapeutiche. Per questo motivo il metodo delle Arti Terapie, molto vario ed eclettico, a volte viene considerato un metodo corporeo.
A livello di vissuto corporeo, l’attacco di panico è il sintomo del fallimento dell’integrazione della percezione sensoriale, cinestesica e vegetativa con la vita emotiva e con la capacità di descrivere e nominare questi eventi. Spesso la verbosità lamentevole sostituisce la capacità di verbalizzazione.
Da un punto di vista dinamico possiamo leggervi il fallimento, o la deliberata volontà, anche se inconscia, di attaccare “qualsiasi cosa venga (dal paziente) percepita come legame tra due oggetti.” (è doveroso il riferimento a Bion anche se questo autore non riferisce il suo “attacco al legame” ai disturbi di panico: Bion, 1970, pag. 144). L’aspetto più interessante, comune sia al punto di vista dinamico sia corporeo, può essere considerato l’elemento “separazione” degli organi, delle funzioni e delle emozioni, che consente di guardare all’approccio integrato come a un terreno privilegiato che, non rinnegando il corpo, nemmeno lo elegge ad unico rappresentante dell’organismo.
Per chi lavora con il corpo, la crisi di panico è l’aspetto evidente (sintomatico) del fallimento della capacità di coordinare le varie funzioni che, nel corpo, replicano quanto avviene nella mente. Cercare una soluzione unicamente “mentale” o unicamente “corporea” non è sufficiente per individuare e sanare la fonte da cui origina il problema e allora, esercizi di coordinazione, proposti contemporaneamente alla disamina psicologica dei vissuti emotivi e sensoriali, per mezzo della verbalizzazione, possono far parte di momenti privilegiati per la comprensione, la fiducia e l’acquisizione della competenza. Questi elementi, comprensione, fiducia e competenza, riscoperti nel proprio corpo, si possono rivelare capaci di indurre anche la risoluzione sintomatica, come già considerato e descritto nell’articolo consultabile all’indirizzo http://www.lidap.it/ciardiello.html. In presenza di un attacco di panico siamo davanti ad un vissuto più o meno destrutturato. Le sensazioni di disintegrazione si accompagnano ad impressioni di impotenza e paura di non poter governare le proprie parti corporee, organi e sistemi (muscolare, respiratorio, cardiaco). Evidentemente i due termini, non integrazione e disintegrazione, che rappresentano un’identica realtà, di fatto si accompagnano a due fantasie e due vissuti diversi. Tendiamo a rappresentarci la “non integrazione” come un insieme di elementi che hanno in sé la possibilità di integrarsi, mentre nella “disintegrazione” siamo portati a rappresentarci un evento che, oltre a rompere l’equilibrio degli elementi, li ha anche svuotati della loro capacità di reintegrarsi. Probabilmente questa possibile dinamica è riconducibile alla proiezione del vissuto aggressivo primario, del bambino che eravamo, che come risposta al più o meno reale e/o fantastico comportamento aggressivo e/o inadeguato di chi non si prendeva cura “di noi come desideravamo”, attua una ritorsione tesa a distruggere tutto ciò che tende ad unire e a svuotare i singoli elementi del potere aggregante. Atteggiamento da cui deriva anche il rischio depressivo.
Sintetizzando possiamo dire che le persone sofferenti di DAP, pur desiderando e cercando persone e situazioni in cui potersi abbandonare (rilassare e amare), vivono i momenti di regressione come pericolosi; hanno difficoltà a “lasciarsi andare” e hanno disimparato a riconoscere le proprie emozioni e sensazioni (scotomizzazione: processo difensivo per cui il soggetto rifiuta di percepire determinati aspetti della sua situazione ambientale o di se stesso, specie quelli spiacevoli o dolorosi).
Allora possiamo ipotizzare che queste persone, soggette a vissuti di destrutturazione improvvisi e immotivati, dal punto di vista terapeutico dovrebbero: a) essere aiutati a ridare agli elementi che compongono il loro “Io” il senso aggregante (collante); b) essere condotte a riprendere contatto con la loro capacità di coordinarsi e di integrarsi psicofisicamente (riavere fiducia in sé); c) dovrebbero imparare a riconoscere le emozioni e legarle alle sensazioni. Per fare tutto questo dovrebbero essere aiutate a riaccostarsi ai propri personalissimi modi di funzionare e a rispettarli nel loro senso dinamico (cioè per quello che significano nell’economia psichica di ognuno).
Dal punto di vista della psicoterapia corporea, per realizzare questi obiettivi è inutile ricorrere alla prescrizione o alla persuasione perché i sentimenti che accompagnano questi eventi sono ampiamente colorati dalla sfiducia, sia in sé stessi, forse anche alimentata dalle svalutazioni subite nel corso degli anni, sia nelle persone del cui affetto si è sempre creduto (spesso si tratta dei genitori da cui ci si sente traditi). La mancanza di fiducia nei confronti delle prime persone care, col tempo è diventata sfiducia in qualunque altra persona anche solo suscettibile di diventare cara, a causa di una sorta di generalizzazione rancorosa che si estende a tutte le persone che si offrono di aiutare e che, così facendo, si candidano a diventare care.
Allora anche il terapeuta rischia di essere investito da questa generalizzazione che gli risulta ancora più invasiva se inattesa.
Per l’approccio corporeo un atteggiamento terapeutico che tenga conto di questi elementi può essere quello di: 1) considerare il corpo e la psiche un’unica cosa; 2) considerare l’organismo composto da organi e sistemi; 3) provare ad indurre la parte cosciente, quella che a volte è definita Io-corpo e che è un’istanza tra lo psichico e il corporeo (Ruggieri, 2001), a prendere contatto gradatamente con queste parti, che sono sia psicologiche (mentali), sia fisico/corporee, sia emozionali; 4) integrare queste parti promuovendo e alimentando la fiducia, con graduali esperienze di equilibrio ed integrazione.
La psicoterapia corporea, che ha sempre guardato all’organismo umano come a un tutto integrato, nasce dalle osservazioni di W. Reich. Questo autore è stato uno dei pionieri dell’approccio integrato alla persona ma vicende storiche hanno un po’ adombrato il suo lavoro che, fortunatamente, oggi si sta riabilitando grazie alla Bioenergetica, alla Vegetoterapia, alla Gestalt, all’approccio Centrato sulla Persona e alle altre scuole e associazioni terapeutiche che fanno del corpo il punto focale della loro attenzione.
Originariamente Reich si accorse che alcune nevrosi tendevano alla remissione in seguito all’esecuzione di piccoli esercizi corporei che, indagati anche psicologicamente, ripristinavano una discreta funzione organismica (Reich, 1977; De Marchi, 1981).
Senza dilungarci sugli aspetti storici ed evolutivi delle tecniche che da questo autore derivano, vediamo come si può proporre, nel caso del Dap, un approccio che tenga conto sia dell’aspetto corporeo sia di quello psicologico.
Nell’osservare una persona fortemente in ansia o in stato di panico, capita di restare colpiti da alcune cose in particolare: per esempio dalla difficoltà respiratoria, dal soffocamento, dalla tachicardia, perdita degli occhi, perdita delle gambe, sudorazione più o meno profusa, ecc. (per un piccolo esempio ci limitiamo solo a pochi elementi pur sapendo che, in una realtà terapeutica, gli elementi corporei/psichici da prendere in esame sarebbero maggiori). Con una persona che va in apnea quando è in ansia, decidiamo di occuparci della funzione respiratoria. Una volta indagata nei suoi aspetti somatici e psichici (a livello toracico, addominale e diaframmatico) procediamo alla sua rieducazione. Allo stesso modo ci orientiamo per l’organo della vista (gli occhi). Prima indaghiamo tutti i movimenti e poi stimoliamo l’utilizzo di tutte le funzioni, fino ad arrivare ad una performance complessiva. Dopo di ciò si può procedere con esercizi che “legano” il movimento degli occhi a quello respiratorio. Per ogni movimento discreto, di ogni funzione e per ogni organo e poi per la funzione complessiva, va svolta l’indagine psicologica. In questo modo realizziamo nel corpo le dinamiche della fiducia e dell’integrazione riproponendo il confronto con i sentimenti conflittuali e, nello stesso tempo, produciamo il trasferimento della fiducia dalla terapia, e dal terapeuta, alle proprie competenze e al Sé, così da spostare il fuoco della fiducia dall’oggetto al soggetto (dalla fiducia degli/sugli altri alla fiducia di/in sé stessi).
Abbiamo detto perdita degli occhi, delle gambe, eccetera. In realtà non “perdiamo” i nostri organi; però ciò che soggettivamente viviamo è che l’ansia induce degli stati parossistici, nel nostro corpo, tali per cui la sensazione predominante diventa proprio quella di non essere più padroni dei propri organi. È come se all’improvviso questi si rivelassero posseduti di vita autonoma e fossero separati dall’Io. L’impressione del soggetto è quella di vivere una spoliazione: non ha più il controllo delle parti che lo compongono.
Nello specifico degli occhi e delle gambe, la sensazione è che “Io” non sono più presente negli occhi che, in tal modo, non sono più capaci di soffermarsi sugli oggetti esterni e svolgere la funzione del vedere e del guardare. Le gambe, ugualmente, vengono meno e si perde la capacità di tenere una tensione isometrica tale da governare tutte le funzioni.
Sappiamo che le gambe ci sostengono contro l’attrazione gravitaria. Ci permettono di spostarci nello spazio; con esse camminiamo ma anche calciamo, corriamo, sentiamo la terra, sosteniamo il corpo e, con i piedi, siamo anche capaci di tatto. Dovendo riportare questi organi ad una funzione sottoposta al controllo dell’Io-corpo, possiamo pensare di utilizzare degli esercizi di controllo e coordinazione spaziale ricordando però che ogni movimento, piccolo che sia, è già un movimento complessivo e che, nella sua esecuzione, coinvolge l’intero organismo. Perciò i riflessi comportamentali che impediscono il movimento fluido e coerente, vanno cercati ed indagati anche in altre parti del corpo che possono essere vicine o lontane dall’organo implicato (a volte parti del corpo diverse, ma coinvolte in un’unica funzione espressiva, veicolano messaggi contraddittori; Birkenbihl, 2002).
Il semplice ruotare della testa o, per restare nell’esempio precedente, lo spostare gli occhi da un oggetto all’altro, oppure dallo sfondo di un tramonto alla messa a fuoco di un viso a breve distanza da noi, oppure camminare a piccoli passi, sono movimenti che si accompagnano a configurazioni fisiche diverse cui corrispondono specifiche configurazioni neuronali, e quindi psicologiche, colorate affettivamente. Sono questi movimenti che vanno indagati terapeuticamente perché ogni movimento può produrre nell’organismo un’emozione legata ai movimenti analoghi del passato. Per questo possiamo dire che qualunque esercizio di rieducazione, e poi di integrazione, che riusciamo a pensare, deve essere proposto stando attenti ai vissuti che l’accompagnano e ai ricordi sollecitati. È come se i nostri ricordi fossero conservati in scrigni muscolari le cui chiavi sono celate in alcuni dettagli dei movimenti complessivi.
Dicevamo che una delle caratteristiche del panico è la perdita della capacità di controllare i movimenti oculari e la funzione del guardare e del vedere. Ciò comporta uno stato di confusione che può rivelarsi tanto a livello cognitivo quanto a livello affettivo/emozionale. Volendo ricondurre la persona alla fiducia nei confronti della possibilità di controllare i propri occhi, si può pensare ad esercizi di concentrazione oculare. Per esempio chiedendo alla persona di guardare fisso, per alcuni secondi e poi minuti, il centro dei nostri occhi, oppure la punta del nostro naso o del nostro dito. Allo stesso modo, per il controllo delle gambe e piedi si può usare l’esercizio del camminare ponendo attenzione all’appoggio delle parti dei piedi (tallone, pianta, punta, parte esterna e interna).
Mentre si svolgono queste attività non bisogna dimenticare l’attenzione al respiro.
Il respiro è l’elemento fondamentale della nostra vita. Oltre ad essere il primo e ultimo atto della vita, sovrintende ai singoli movimenti, alla loro successiva integrazione e all’integrazione delle funzioni di tutto l’organismo. Il “congelamento” del carattere nel nostro corpo avviene tramite la forma che il nostro respiro assume (si provi a pensare al trattenere il respiro dei bambini quando hanno paura) e, dato che il carattere si lega al controllo, e il problema del controllo nel Dap è uno dei problemi principali (Ciardiello, ib.), in questo disturbo la funzione respiratoria è anche la prima ad essere compromessa. Potremo avere una costrizione alla gola, un blocco toracico o diaframmatico con sensazione di “pressioni” sullo sterno; si possono avvertire dolori intercostali o sensazioni di “buchi” all’altezza dello stomaco; le spalle si possono “chiudere” in avanti per impedire alle costole di ampliarsi. I muscoli dorsali si possono contrarre e quelli del collo irrigidirsi. Il bacino si può bloccare arrivando anche a compromettere una corretta deambulazione. Insomma, riassumendo, possiamo dire che si respira con tutto il corpo e che siamo anche il modo in cui respiriamo. Per questo, se proponiamo una rieducazione funzionale, di qualunque parte del nostro organismo, dobbiamo farlo contemporaneamente a quella respiratoria.
Anche per questa funzione valgono gli stessi principi di base: gli esercizi non vanno eseguiti come esercizi di ginnastica respiratoria ma vanno considerati “espressivi” di un modo d’essere personale finalizzato alla relazione. Perciò, e va ribadito, queste piccole azioni vanno indagate nei loro vissuti sensoriali, emozionali ed ideativi.
A proposito dell’indagine, qualche indicazione operativa generalizzabile a più livelli, la possiamo prendere dalle considerazioni a valenza analitica dall’Analisi Reichiana.
Quando si chiede alle persone di respirare, sia da distesi che in piedi o da seduti, scopriamo che in genere la tendenza è quella di chiudere gli occhi, perché con la chiusura degli occhi, lo sguardo si volge all’interno di noi stessi e in tal modo diventa maggiormente possibile “vedere” il respiro. È una modalità di concentrazione naturale che, tra l’altro, stimola sensazioni di abbandono che possono essere considerate “regressive” e la regressione può ricondurre al vissuto della dipendenza.
Allora, quando chiediamo alle persone di respirare, queste sono naturalmente indotte ad assumere un atteggiamento di abbandono, sono invogliate a lasciarsi andare e spinte anche un po’ a regredire. Ma perché questo avvenga naturalmente e senza allarmi, è necessario anche ci sia una fiducia che, come abbiamo visto, nel Dap bisogna ricostruire.
Paradossalmente nel Dap ricostruire la fiducia vuole dire anche promuovere l’autonomia, che si lega alla possibilità di vivere nel mondo con gli occhi aperti e capaci di vedere. Queste due possibilità, apparentemente contraddittorie, vanno realizzate con cura, cautela e sistematicità perché, come è evidente, sono cariche di emozioni varie e complesse.
Se una persona chiude gli occhi probabilmente ha fiducia in chi la sostiene; ma restare con gli occhi aperti e morbidi, non allarmati, vuole dire che ha fiducia in sé stesso, nella propria capacità di relazionarsi e nella propria autonomia. Ha coraggio e guarda le cose in faccia. Questa è la funzione finale da perseguire, però solo dopo essere passati per l’acquisizione della capacità di abbandonarsi, regredire e dipendere senza timori. Ottenuto l’abbandono si cercano i modi, diversi per ognuno, per raggiungere una respirazione completa che coinvolga tutte le parti: addome, diaframma, petto, spalle, bacino e gambe. Quando la persona è giunta a sentire il respiro fluido, che “quasi come un’onda lo attraversa tutto”, si può proporre di aprire gli occhi conservando il modo di respirare acquisito e contattando la realtà circostante (appoggiare gli occhi sugli oggetti e/o sulle persone). Il passaggio successivo è l’aggiunta e l’integrazione della deambulazione.
Da queste osservazioni si può dedurre, con più puntualità di quanto già suggerito, che anche le attività sportive e socializzanti possono essere d’ausilio nei disturbi colorati dal panico. In effetti il ballo, la corsa, la bicicletta e le varie attività ludiche, sono attività che colgono aspetti specifici della persona. Aspetti che sono riscontrabili, in modo problematico, anche nel disturbo di panico: l’aspetto relazionale, quello della fiducia e quello dell’investimento corporeo che richiedono l’attivazione funzionale, contemporanea e integrata, delle diverse parti dell’organismo.
Chi soffre di Dap sta combattendo una dura lotta con le emozioni che tendono a relegarsi in qualche parte buia e inaccessibile. Più cresce la sfiducia, più queste emozioni diventano pericolose. Se non sono riconosciute, o vengono negate, aumenta la loro carica energetica, il loro valore, e sono soggette al rischio d’esplodere. È l’esplosione l’evento che maggiormente spaventa coloro che soffrono di DAP. Dentro loro stessi vivono già l’esito di una deflagrazione arcaica fantasticata, e per questo sono costantemente impegnati a tenersi insieme, fino ad esaurirsi e implodere, massificando i sentimenti. Alla fine, piuttosto che esplodere, si sceglie la destrutturazione che almeno salva le relazioni e non compromette la dipendenza. Con l’ausilio di queste osservazioni, fatte con l’intento di fornire una semplificazione di un modo possibile di operare, possiamo dire che, nel Disturbo da Attacchi di Panico, qualsiasi attività che promuove l’autonomia, la coordinazione, il contatto con sé, il piacere e l’integrazione può essere un utile strumento. Ma dobbiamo anche dire che qualsiasi attività, perché porti sollievo psicologico derivante da un sentimento riabilitante duraturo, e quindi assuma un valore terapeutico, necessita anche di un’attenzione analitica per la quale non è possibile stabilire a priori un protocollo valido per tutti. Come ogni soggetto manifesta il Dap privilegiando determinate manifestazioni sintomatiche, allo stesso modo ogni soggetto necessita di particolari esercizi calibrati sulla persona e, sulla stessa persona, vanno calibrate anche le modalità d’indagine. Questo soggettivismo merita un capitolo a parte legato alla diagnosi.
*Psicologo, psicoterapeuta, consulente Lidap – Roma
BIBLIOGRAFIA
V. F. Birkenbihl, “L’arte d’intendersi. Ovvero come imparare a comunicare meglio”, Franco Angeli Ed., 2002.
W. R. Bion, “Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico”, Armando ed., 1970.
G. Ciardiello, “Genesi, diagnosi differenziale e terapia del disturbo da attacchi di panico (Dap)“,
L. De Marchi, “Vita e opere di Wilhelm Reich, vol. I e II”, SugarCo Ed., 1981
Donald W. Winnicott, “Dalla pediatria alla psicoanalisi. Patologia e normalità nel bambino. Un approccio innovatore”, G. Martinelli & C. Ed., 1975, 1991
James, I. Kepner, “Body Process. Il lavoro con il corpo in psicoterapia”, FrancoAngeli Ed., Milano, 2006
W. Reich, “Scritti giovanili Vol. I e II”, SugarCo Ed., 1977 V. Ruggieri, “L’identità in psicologia e teatro”, Magi Ed., 2001.