Cos’è lo stress? Come possiamo sollevarci da un periodo faticoso o sottrarci al rischio di cadere vittime di uno stato di stress acuto?
Innanzi tutto dobbiamo conoscerlo. Bisogna saperlo interpretare e individuare ma, soprattutto, bisogna conoscere le condizioni che possono produrlo per poter trovare le strategie di cura e prevenzione.
Per la sua comprensione può venirci in aiuto il lavoro di un personaggio che da anni lavora su questo fronte. Jon Kabat-Zinn ne ha scritto in diversi libri ed ha anche elaborato un protocollo per la sua risoluzione e prevenzione. Uno dei meriti di questo personaggio è aver trasposto in forma terapeutica formale, concetti e pratiche derivanti dalle tradizioni orientali di meditazione.
In uno dei suoi libri, Vivere momento per momento (Tea, 2010), Kabat-Zinn parla dello stress introducendolo come una risposta generale che sovrintende a molti stati soggettivi; belli o brutti che siano possono tutti produrre un senso di affaticamento. Ne fa un breve resoconto storico a partire da Hans Selye (1907-1982) che per primo introdusse il termine stress definendo come l’esito della sindrome generale di adattamento. Lo stress sarebbe quindi un elemento naturale dell’esistenza e forse proprio per questo richiede anche un costante adattamento. È questo tentativo che l’organismo fa, di adattarsi alle variabilità dell’esistenza, che può generare disequilibri, specie quando questi accomodamenti sono inadeguati. Perciò allora diventa importante imparare ad essere attenti alle risposte che il nostro organismo organizza in relazione agli eventi e al modo in cui risponde.
Il più delle volte lo stress non è causato dall’oggetto esterno con cui siamo in relazione ma dal modo in cui lo percepiamo e dal senso che gli diamo. Dobbiamo adattarci alla forza di gravità, dice Kabat-Zinn, al ciclo delle stagioni e ad altre forze che agiscono su di noi, anche sociali, ma non soccombiamo a tutto. Anzi, impariamo a sopravvivere anche ad avvelenamenti e a forti scosse fisiche e psicologiche. Tra stressori oggettivamente letali, come l’eccessivo smog di talune metropoli, e quelli benigni, come la forza di gravità o l’andamento delle maree, c’è n’è un’ampia gamma il cui valore di disturbo dipende dal modo in cui sono percepiti soggettivamente, dal modo in cui sono interpretati e da come si affrontano. Per ridurre queste reazioni stressanti non è necessario inventare nuovi modi di essere ma basta sviluppare un solo e unico modo, che sia funzionale, per affrontare i cambiamenti in generale e il primo passo è diventare consapevoli delle condizioni stressanti.
Citando Richard Lazarus (1922-2002), Kabat-Zinn suggerisce di guardare allo stress come dovuto ad una transazione tra l’individuo e l’ambiente, un rapporto che suscita in ognuno di noi una reazione diversa a seconda di come la interpretiamo. È questa interpretazione a determinare l’atteggiamento che assumiamo rispetto all’evento, atteggiamento che deriva dall’idea che ci formiamo circa noi stessi. Queste idee possono arrivare a costituirsi come forma stabile portandoci ad agire, rispetto ad ogni evento, in maniera indifferenziata. Il nostro organismo, reagendo agli eventi interni o esterni in maniera generalizzata, attiva comportamenti fisiologici elementari, come quelli di attacco o fuga, senza più la capacità di valutarne la necessità. Questa attivazione è utile perché così vengono allertati i processi fisici automatici che, provocando emozioni e tensioni muscolari molto intense, ci mettono in condizione di raccogliere molte informazioni nel minor tempo possibile e rispondere in maniera tempestiva ed efficace. Questo intento si realizza attivando il circuito cardiaco, respiratorio e ghiandolare così che tutto l’organismo risulta attento e focalizzato per il periodo necessario. Questa attivazione generale, che fortunatamente si realizza per ogni minaccia, purtroppo si realizza anche per le minacce solo fantasticate o dovute ad una cattiva interpretazione degli eventi. Inoltre, questo stato di sovreccitazione occasionale, può anche diventare un modo abituale di reagire agli eventi, anche più banali, trasformandosi in una specie di abito che caratterizza la personalità di ognuno.
Per questo motivo, insiste Kabat-Zinn, è necessario diventare consapevoli di questi stati, perché l’abitudine ai falsi allarmi ci aliena dalla nostra vera personalità portandoci a stati psicofisici disfunzionali e disadattivi. In poche parole, essere sempre in allarme determina una sorta di abitudine che produce affaticamento e stress oltre a provocare un’ulteriore difficoltà organismica consistente nell’impossibilità a reagire, anche in caso di pericolo reale, perché sarà impossibile dar luogo ad un’ulteriore attivazione. Queste vicissitudini possono creare un vissuto di inadeguatezza specialmente quando ad essere minacciata è la nostra posizione sociale.
Ogni organismo, agendo queste risposte complesse, sembra avere una parte privilegiata di attivazione. Ci sono persone che soffrono per una perenne attivazione cardiaca, altre per una costante sudorazione profusa o zonale, altre ancora per problemi respiratori. Tutti questi processi sono attivati da meccanismi di allarme automatici che, non producendo mai una scarica consumatoria, perché per esempio si può negare di essere agitati o semplicemente non ci si rende conto del malessere corrispondente, non produrranno mai quella stanchezza che porta a desiderare un sano riposo. Persisteranno nei nostri atteggiamenti stati di tensione cui ci abitueremo accumulando stress e favorendo il sorgere di disturbi che a lungo andare possono arrivare a ledere gli organi e i sistemi.
Nei confronti di queste tensioni usiamo diversi sistemi automatici di salvaguardia. Alcuni adeguati, come quando ci si ferma in tempo, quando si sa decidere di spegnere il computer perché si riconosce di essere stanchi, quando si sa godere degli hobby e riconoscere la stanchezza del corpo e della mente e si sanno alimentare interessi ludici. Quando ci si sa dare buoni consigli e mettersi in condizione di guardare le cose in prospettiva. Altre volte invece si usano metodi inadeguati come per esempio quando facciamo finta di niente, quando ci si impegna ossessivamente in attività che, se fossero svolte diversamente, potrebbero essere distensive. Oppure quando ci si abitua all’uso di sostanze psicoattive o a rituali che anch’essi, svolti diversamente, potrebbero calmare e distrarre. Per esempio il rituale del caffè con gli amici può assumere un carattere stressante quando non è più occasionale ma viene usato come riempitivo di momenti morti che si susseguono. Oppure, un buon bicchiere di vino può smettere di essere simbolo di coralità e diventare l’unico compagno in una vita solitaria.
Le stesse sostanze medicinali, abusate e usate con leggerezza, o anche con l’idea di ridurre lo stress, sono suscettibili di produrne ancora di più. Dice Kabat-Zinn “Nella maggior parte dei casi, l’uso abituale di sostanze chimiche, legali o illegali, per ottenere un certo senso di benessere e di rilassamento è un esempio di strategia di adattamento inappropriata. Esso è particolarmente malsano quando diventa l’unico o principale modo di controllare le nostre reazioni allo stress. È malsano perché, anche se può fornire un sollievo temporaneo, a lungo andare accresce lo stress… Le sostanze con cui cerchiamo di combattere lo stress sono, inoltre, fonte di stress per il nostro corpo.” (pag. 173).
Come in una catena non è possibile prevedere quale sarà il primo anello a cedere ad una forte tensione, così nell’organismo non è facile prevedere quale sistema o organo cederà alle abitudini malsane e disadattive. Un crollo può derivare dal semplice esaurimento funzionale di un organo (lesione) o da una accresciuta suscettibilità sistemica ad incidenti, come per le lesioni ossee. Oppure possono subentrare malattie dovute a cadute immunitarie e deficienze riparative. Questi eventi funzioneranno da ulteriore elementi stressogeni in una realtà già di per sé stressante.
Come uscire dal circolo vizioso delle risposte disadattive? La risposta di Kabat-Zinn è la consapevolezza. La presenza mentale. La centratura. Secondo il nostro autore la soluzione è nella possibilità di modificare il proprio abito mentale imparando a rispondere allo stress piuttosto che reagire. Suggerisce strategie che fanno uso di tecniche meditative e di costrutti da esse derivati. Nella clinica che conduce nel Massachusetts per la riduzione dello stress, trova ampio impiego il protocollo da lui ideato e che ha preso il nome di Mindfulnes.
E noi della Lidap che con interesse guardiamo a queste iniziative, quali elementi utili possiamo trarne? Si può pensare di realizzare anche nei gruppi AMA attività analoghe a quelle proposte dal nostro autore? Certo resta difficile pensare di usare tecniche meditative, o qualsiasi altra cosa così specifica, perché la stessa specificità dei gruppi AMA ha la necessità di tagliarsi un abito proprio. Però, partendo dall’idea che il dap si impone innanzi tutto come elemento corporeo e che è intensificato da situazioni stressanti, non si potrebbe pensare ai momenti di incontro AMA come momenti in cui, oltre ad una facilitazione verbale, possa essercene anche una corporea? Nel disturbo panico le dimensioni psicologiche che si accompagnano ai vissuti corporei (vergogna, eccitazione, senso di inadeguatezza, goffaggine, disturbi dell’equilibrio, titubanza ecc.) rischiano di invalidare ulteriormente le già precarie relazioni sociali. Alla luce di questi esempi, e ad integrazione della facilitazione comunicativa ed espressiva che utilizziamo nei gruppi AMA, si potrebbe progettare di introdurre semplici attività corporee finalizzate all’allentamento delle tensioni relazionali più grossolane.
Giuseppe Ciardiello Psicologo, psicoterapeuta, consulente Lidap.