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Hikikomori: ragazzi in una stanza
Dr. Paolo Chiappero, psicologo e psicoterapeuta
Laurea specialistica in Psicologia (Univ. Padova). Laurea breve in Sociologia (Univ. Milano).
Specializzazione in Teorie e Tecniche di gruppo (Univ.Bologna). Master in Formazione Formatori (Studio P.O. – Milano). Master in Gestione e Organizzazione delle Risorse Umane (SOGEA – Genova). Psicologo e Psicoterapeuta privato. Consulente-Psicologo per i Servizi Sociali del Comune di Genova (1996-2010). Rappresentante Legale, docente e conduttore di gruppi di Supervisione della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia “Il Ruolo Terapeutico di Genova” (riconosciuta dal MIUR con Decreto Ministeriale del 31/7/2003).
Membro del Comitato Scientifico Nazionale della LIDAP (Lega Italiana Disturbi d’Ansia, agorafobia e attacchi di Panico). Caporedattore e membro del Comitato Scientifico della Rivista “Varchi. Tracce per la Psicoanalisi”. Referee della Rivista “Psicoterapia e Scienze Umane”; CTU e CTP per il Tribunale Ordinario e per Il tribunale dei Minorenni di Genova.
Collaboratore, in qualità di consulente, supervisore e formatore, di vari Enti Pubblici e Privati. Autore di libri e articoli di Psicologia, Psicoterapia e Psicoanalisi. Relatore e Chairman in vari Congressi nazionali ed internazionali.
Hikikomori è un fenomeno sociale, un disagio sociale, che colpisce soprattutto la fascia dell’adolescenza, giovani adulti, ragazzi e ragazze. Il termine è giapponese e deriva dalle parole hiku ritirarsi e komoru avere questa tendenza, quindi definisce la tendenza al ritiro.
Ma che tipo di ritiro? Si tratta del ritiro sociale, quindi una sorta di autoreclusione, e sottolineo “auto”, perché è una scelta del soggetto.
Quando è stato definito il fenomeno
Come spesso accade, prima nasce il fenomeno sociale, e poi gli si da un nome. Intorno al 2000 si è iniziato a parlare di hikikomori su basi scientifiche e, inizialmente, lo si è definito una sindrome da apatia che riguarda soprattutto le giovani generazioni. È in particolare uno psichiatra, Tamaki Saito, che se ne occupa per la prima volta, cercando anche cure e terapie per questi ragazzi e per le loro famiglie.
Perché in Giappone
Ma perché il Giappone? In Giappone ci sono state tutta una serie di innovazioni tecnologiche a partire dagli anni Settanta e Ottanta, molto prima che da noi, che hanno in qualche modo favorito questo ritiro sociale dei ragazzi. Si tratta di situazioni in cui il ragazzo o la ragazza resta sempre in casa, nella sua stanza, iperconnesso alla rete attraverso la playstation, il computer o lo smartphone.
Il fatto che queste tecnologie abbiano favorito l’insorgere di questo fenomeno, che è poi, anche se in misura diversa dal Giappone, nel resto del mondo, non significa che sia colpa delle tecnologie.
I problemi alla base di questo fenomeno sono altri, però sicuramente queste tecnologie li hanno amplificati. La cultura tradizionale giapponese da molto valore ai legami familiari, che sono molto stretti e sui giovani tendono a pesare parecchio, rendendo loro difficile realizzare un’autonomia dalla famiglia. Secondo diversi studiosi questo spiegherebbe perché il fenomeno resta ancora più diffuso in Giappone, che nel resto del mondo.
Questo ci permette di fare un paragone rispetto a quello che succede in Europa, in Italia, dove il disagio giovanile, come sappiamo, non è soltanto l’hikikomori. Mentre in Giappone la maggior parte del disagio giovanile è legata a questo fenomeno, in Europa prevalgono episodi di microcriminalità, o disturbi del comportamento alimentare, insomma le forme di disagio sono molte e variegate.
Le sue caratteristiche
Ma cosa caratterizza questa sindrome? Il ritiro sociale è nel termine stesso di hikikomori. Esso diventa, in varie fasi, all’inizio soprattutto, un restare in casa, un rinchiudersi nella propria casa, che poi diventa un rinchiudersi nella propria stanza. La stanza diventa una sorta di casa nella casa. Ma oltre a questo ritiro, fisico e psicologico, c’è una perdita di interessi. Non dobbiamo però confondere l’hikikomori con un fenomeno che oggi è anche sintetizzato in un acronimo che è N.E.E.T., dall’inglese, che significa non employment education training. Con N.E.E.T. si intendono tutti quei ragazzi o giovani adulti che non sono occupati, né nel lavoro, né nel percorso scolastico, né in qualche percorso formativo. Sono tanti i ragazzi che si trovano in questa situazione, ma qua incidono diversi fenomeni, come la disoccupazione giovanile e a tante ragioni variabili di tipo socio-economico. Quindi non tutti i N.E.E.T. sono hikikomori, ma i ragazzi e le ragazze che chiamiamo hikikomori rientrano sicuramente in questo più ampio insieme dei N.E.E.T., mediamente ne compongono il 10%.
L’identikit dell’hikikomori
L’identikit dell’hikikomori, oltre a quello del ritiro sociale, è quello di una popolazione soprattutto maschile, c’è un’alta percentuale soprattutto di ragazzi piuttosto che di ragazze.
La fascia è quella della preadolescenza, quindi dalla fine della media inferiore ai primi anni dopo i venti, insomma quella fascia d’età che corrisponde più o meno agli studi universitari. Molto spesso l’insorgenza del fenomeno avviene proprio nel passaggio da un ciclo scolastico a un altro, quindi medie-inferiori, medie-superiori e medie-superiori-università. Questi passaggi coincidono con fasi di età anagrafica molto particolari, nel primo caso c’è il passaggio tra preadolescenza e adolescenza, e nell’ultimo tra adolescenza ed età adulta. Ma oltre a questo, se ci riflettiamo, rappresentano anche i momenti di snodo nella vita in cui si gettano le basi per il futuro, in cui ci si assume la responsabilità delle scelte, la scelta della scuola superiore, la scelta dell’università e si cominciano a mettere le basi sul “cosa farò da grande?”: questo crea molto spesso ansie, resistenze.
Il primo stadio
Il disagio di questi ragazzi e di questi adolescenti, non nasce da un giorno all’altro, ma ha origini più o meno antiche, però rispetto al suo manifestarsi in genere viene concettualizzato tre stadi. Il primo è la riduzione le attività esterne, molto spesso accampando scuse. Si comincia a frequentare meno la scuola, tralasciare un hobby che si aveva all’esterno, si inizia ad abbandonare uno sport, frequentarlo meno, viceversa aumentano le attività all’interno, quindi a casa, prevalentemente nella propria stanza alla fine. In questa fase solitamente, il ragazzo o la ragazza razionalizzano: “non ho più voglia di fare quello sport”, “ma magari ne farò un altro” o “ma in questo periodo ho meno voglia di vedere quell’amico perché abbiamo litigato”, ovvero tendono a trovare scuse.
Il secondo stadio
Cosa succede in seguito? Che queste attività esterne cominciano a ridursi sempre di più, e a quel punto appare più chiaro, anche perché spesso il ragazzo o la ragazza cominciano a dirlo, a esplicitarlo, che non hanno voglia di uscire, non hanno voglia di essere impegnati in qualsiasi attività a lavoro, a scuola, ma anche attività ludiche e sportive, per questo non va confusa l’inattività dal punto di vista dello studio e del lavoro con il fenomeno hikikomori, perché ci sono tantissimi ragazzi e ragazze, i cosiddetti N.E.E.T., che non vanno a scuola e non trovano lavoro semplicemente perché non ne hanno voglia. Questo non significa che questi ragazzi non abbiano attività sociali, attività esterne o non facciano sport.
In questo caso invece no, in questo caso tutto tende a ridursi e, come dicevo, in questo secondo stadio, il ragazzo comincia proprio a esplicitare che non è interessato alle attività esterne, però c’è una discriminante fondamentale, differente per altro da quello che sarà il terzo stadio, quello più grave ovviamente. In genere in questo secondo stadio vengono mantenuti dei contatti sociali online. Questo è molto significativo, è molto importante, è la prima cosa che chiedo ai ragazzi e alle famiglie. I famigliari mi dicono sempre “è sempre attaccato allo smartphone”, “è sempre attaccato al computer”, sì, ma cosa fa? Sono attività solitarie o mantiene un contatto sociale? In questa seconda fase, a fronte di un chiaro ed esplicito ritiro rispetto all’esterno, i contatti sociali vengono mantenuti, banalmente si gioca molto online, magari anche tutta la notte.
Il terzo stadio
Nel terzo stadio invece, anche questi contatti vengono esclusi o ridotti soltanto a una persona, magari l’amico del cuore. E quindi abbiamo veramente un isolamento che rischia di essere totale, tanto che alcune volte diventa un isolamento anche all’interno della casa, anche rispetto ai contatti famigliari. Quindi il ragazzo interagisce quando deve mangiare, ad esempio, ma è un’interazione per modo di dire, infatti ci sono ragazzi e ragazze che si fanno portare il piatto di pasta in camera e intanto continuano a essere iperconnessi e a fare le loro cose. Questo ovviamente è uno stadio di autoesclusione, di auto ritiro pressoché totale dalla vita.
Le cause del fenomeno
Le cause di questo fenomeno, di questo disagio psicologico ed emotivo sono molteplici, ma questo vale per qualunque disagio di tipo psicologico o psichiatrico. Lo dividerei tra cause soggettive, cause famigliari e cause sociali, poi in realtà questi fattori interagiscono.
Le cause psicologiche
Dietro l’hikikomori esiste un ragazzo o una ragazza con il proprio carattere, il proprio temperamento. Ci sono ragazzi e ragazze che tendono maggiormente a ricadere in questa sindrome, perché comunque sono già pervasi da qualche inibizione o ansia sociale, da difficoltà nelle relazioni con gli altri, quindi preesistenti al comparire di questo fenomeno. E poi contano gli attraversamenti delle fasi dell’età, quindi preadolescenza, adolescenza, che sono fasi della vita di ognuno di noi già di per sé complesse, piene di trasformazioni psicologiche, corporee, diciamo difficili, proprio in quanto fasi di transizione. Teniamo conto di questo, e anche di una minoranza, di ragazzi e ragazze che, al di là del fenomeno hikikomori già magari soffrivano da anni di qualche disturbo psicologico o psichiatrico già diagnosticato.
Le cause famigliari
È difficile pensare a un identikit di famiglia, inteso come relazioni famigliari, dinamiche famigliari, stili educativi, che possa essere fonte di questo fenomeno. Si è notato comunque che in quelle famiglie, dove ci sono maggiori aspettative riguardo al futuro, alle scelte dei figli, che poi sono proprio quelle che gli hikikomori non fanno, rinchiudendosi, se c’è molta intrusività nelle scelte, molto controllo, qualche volta addirittura imposizione delle proprie scelte, che però sono quelle dei genitori e che non necessariamente corrispondono o devono corrispondere a quelle dei figli, è più facile che si crei questo tipo di fenomeno.
Un altro caso, che si può sommare a quello precedente, è quello delle famiglie iper controllanti, iper protettive, che non favoriscono l’autonomia, e nell’autonomia del ragazzo ci sono anche le attività sociali, le attività sportive, le scelte scolastiche o lavorative.
Le cause sociali
Ci sono anche cause sociali, che non vanno dimenticate, perché questi fenomeni vanno sempre contestualizzati. Il contesto sociale non aiuta, soprattutto in questi tempi, pensando alla pandemia, i vari lockdown che, come sappiamo, hanno colpito soprattutto le fasce giovanili. Pensiamo anche al cosiddetto coprifuoco che c’è stato per tantissimo tempo e che ha pesato anche sui ragazzi e le ragazze, abbastanza grandi per uscire la sera, il tardo pomeriggio, per prendere l’aperitivo, per andare in discoteca, in pizzeria. Sono mancati tutti questi aspetti, che favoriscono e contribuiscono alla socialità. Ovviamente la pandemia e le misure restrittive che ne sono seguite, non sono sufficienti a spiegare il fenomeno, perché si tratta di una questione sociale che ha riguardato tutti noi, però anche questo ha contribuito e va sommato alle cause precedenti.
La terapia
A questo punto, cosa possiamo fare per questi ragazzi? Quali possono essere le terapie? Perché se parliamo di un disagio psicologico, dobbiamo pensare a delle terapie. Cosa possiamo fare anche come famigliari di questi ragazzi? Intanto l’esperienza di cura di un ragazzo o di una ragazza hikikomori prevede in genere il coinvolgimento della famiglia, i migliori alleati di un terapeuta sono i genitori. Questo in parte, perché come abbiamo visto, anche le dinamiche famigliari, gli atteggiamenti della famiglia, possono favorire o peggiorare una situazione di ritiro sociale. Ma anche perché questi ragazzi vivono in casa, in famiglia, e spesso sono i genitori che richiedono aiuto. Questa è un’altra caratteristica del fenomeno, che rende l’intervento con questi ragazzi abbastanza complesso e difficile, e proprio per questo dobbiamo spesso passare attraverso i genitori o lavorare in parallelo con i ragazzi e con i genitori, con lavorare si intende una psicoterapia, a un supporto psicologico.
Il primo scoglio della terapia
Qual è la caratteristica, tra le tante, di questa forma di disagio? Che il ragazzo o la ragazza non vivono questo disagio o credono di non viverlo. Questo è molto importante, perché il primo scoglio che ci troviamo di fronte a un ragazzo o una ragazza che è così ritirato socialmente, soprattutto negli stadi più avanzati di cui parlavo prima, è che il ragazzo non denuncia nessun malessere, il ragazzo dice “io sto bene così”, e questo è un motivo per cui spesso noi incontriamo prima i genitori, perché sono i genitori a venire a cercare il terapeuta o i servizi territoriali.
Il ragazzo, attraverso il ritiro e l’eliminazione degli interessi esterni, dei contatti sociali, delle scelte, delle responsabilità, delle attività, ha trovato una zona di “comfort”. Gli stessi ragazzi poi, quando riusciamo a parlare con loro, ci manifestano una qualche forma di malessere, ma la versione ufficiale del ragazzo o della ragazza è sempre che stanno bene e che non gli manca niente.
L’aiuto della famiglia
Una delle prime cose che devono fare i famigliari, è quella di cercare, nella maniera più soft, meno invasiva, meno critica possibile, di far emergere questo disagio, cioè far riflettere il ragazzo sul fatto che forse la vita che conduce è espressione di un disagio, è un disagio nel presente, e sarà sicuramente un disagio nel futuro, in virtù di tutte quelle scelte, quelle assunzioni di responsabilità che, in quel momento al ragazzo o alla ragazza mancano.
Quindi, in buona sostanza, cercare di rendere consapevole il proprio figlio o la propria figlia del fatto che stia vivendo un disagio, però rendere consapevoli non significa la sgridata, non significa semplicemente dire “esci, non fare così”, ma si tratta di capire insieme al ragazzo o alla ragazza quali sono le cause, i timori, le resistenze a fare una vita che presuppone anche delle attività esterne, sociali, lavorative, di studio, sportive. Quindi si deve cercare di far riflettere il ragazzo su questo, e questo lo possiamo fare soltanto con un grande ascolto, cercando di dialogare con il ragazzo, e stando attenti anche ad altre cose, ad esempio, a delle forzature: “ti obbligo a uscire”, “ti obbligo ad andare a quella festa con gli amici”. Queste forzature spesso, soprattutto se il ragazzo è già in quello che prima chiamavo secondo o terzo stadio di questo fenomeno, possono diventare traumatiche e portano un ulteriore regressione. Quindi stiamo attenti da un lato alle forzature e all’estremo anche a una sorta di lassismo, di laisser faire che contribuisce a tenere il ragazzo sempre in questa situazione.
Si deve cercare di rendere consapevoli e di far percepire al ragazzo che lui vive anche un malessere. Non concentriamoci solo sugli aspetti concreti, ovvero sul fatto che non esca, che deve fare questo e quest’altro, ma cerchiamo di capire. Credo che in una famiglia si possa fare, che i genitori possano svolgere questo ruolo, denunciando un malessere e cercando di comprenderlo insieme al ragazzo e con l’obbiettivo che sia anche il ragazzo a chiedere aiuto, a rivolgersi a un professionista, anche se ripeto, nella mia esperienza, e in quella della maggior parte dei miei colleghi, spesso e volentieri i primi a rivolgersi sono i famigliari.
L’inizio della terapia
E che cosa succede? Succede che tante volte, proprio perché l’isolamento è la caratteristica di questi ragazzi, la terapia inizi a casa. Contrariamente al solito si propone, attraverso i famigliari, un primo contatto al ragazzo o alla ragazza. È un primo avvicinamento che va fatto scegliendo terapeuti che non solo abbiano esperienza in questo campo ma, se possibile, che siano anche abbastanza vicini per età, ovvero terapeuti abbastanza giovani, e anche per cultura, ma in questo senso già l’età aiuta. Per esempio, la conoscenza di strumenti tecnologici, del web, dei videogiochi, per cercare quella che noi terapeuti in gergo chiamiamo un’alleanza terapeutica con il ragazzo, e questo partendo dal presupposto, ma questo vale per qualunque disagio o sofferenza psicologica, che senza la motivazione della persona si ottiene molto poco. Quindi tanti modi per arrivarci, per provare a stanare questi ragazzi da una vita che diventa una sorta di bolla, di microcosmo o di una “casa nella casa”, una specie di eremitaggio casalingo.
Bibliografia:
Crepaldi M. (2019), Hikikomori. I giovani che non escono di casa, Alpes
Ricci C. (2008), Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, FrancoAngeli
Lancini M. (2019), Il ritiro sociale negli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa, Raffaello Cortina Editore
Sagliocco G. (2011), Hikikomori e adolescenza. Fenomenologia dell’autoreclusione, Mimesis
Bagnato. K (2017), L’hikikomori: un fenomeno di autoreclusione giovanile, Carocci
Procacci M. and Semerari A. (2019), Ritiro sociale. Psicologia e clinica, Erickson
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