Il panico nei bambini, negli adulti e negli anziani. Un solo processo, una radice comune: la repressione dell’adgredior (aggressività) e dell’espressione della rabbia.

di Giuseppe Ciardiello

Nei notiziari e nei normali organi di stampa sembra che la violenza sia in aumento e che si concretizza nelle reazioni violente di uomini che non sanno reagire altrimenti alle separazioni. Fanno notizia anche gli anziani ridotti in solitudine e i disturbi d’ansia che colpiscono anche i bambini, disturbi che si pensava colpissero solo gli adulti.
Bambini, donne e anziani stanno facendo i conti con una stessa realtà. Quella nascosta nella disattenzione, superficialità, noncuranza e mancanza di riguardo che è espressione di un’unica forma di violenza che troppo spesso è letta come agressività.
In questo contesto è necessario prendere coscienza del fatto che il vero problema non sta nell’aggressività, che in fin dei conti non è altro che il modo in cui le emozioni sono espresse, bensì nella violenza che si camuffa e nasconde nelle espressioni che gli somigliano.
L’aggressività, la vitalità, l’impetuosità e la vivacità, che spesso vengono giudicate come manifestazioni prepotenti e dispotiche, sono in realtà solo maniere irruenti e veementi di relazionarsi. Ma proposta con un senso così grossolano, la vitalità necessita di un distinguo perchè sia riabilitata la sana e libera espressione delle emozioni.
1. La rabbia come ‘stato mentale’ e la sua carica: l’adgredior
2. La repressione dell’adgredior nel disturbo panico
3. La repressione dell’adgredior e il disturbo panico nei bambini
4. La repressione dell’aggredior e il panico nelle donne
5. Il panico negli anziani e la paura della sparizione

  • 1. La rabbia come ‘stato mentale’ e la sua carica: l’adgredior

    ‘Il cielo era così stellato, così luminoso che, guardandolo, ci si chiedeva istintivamente: è mai possibile che sotto un simile cielo vivano uomini collerici e capricciosi?’ (Fedor Dostoevskij, ‘Le notti bianche’)
    ‘Io sono un uomo malato… astioso. Sono un uomo malvagio. Credo di essere malato di fegato. Del resto non ne so un accidente della mia malattia e non so neppure esattamente cosa mi faccia male… So meglio di chiunque che in questo modo danneggio unicamente me stesso e nessun altro; eppure, se io non mi curo, è solo per rabbia. Ho mal di fegato? Tanto meglio, mi faccio ancora più male!
    E’ un pezzo che vivo così: saranno vent’anni. Ora ne ho quaranta. Prima ero impiegato, adesso non lavoro più. Ero un pessimo impieato. Ero sgarbato e ci provavo gusto.’
    ( Fedor Dostoevskij, ‘Memorie dal sottosuolo’)

    Così è narrata l’emozione della rabbia da un noto e grande autore di narrativa. Proposta come una falsa capricciosità, viene descritta come uno stato mentale dipinto da un rancore inspiegabile.
    L’ipotesi che possiamo fare è che queste forme di rancore si siano formate in seguito ad esistenze sofferte e per la fatica di vivere; forse per un blocco di senso e per la difficoltà incontrata nel costruire una realtà in sintonia con quella accettata da tutti.

    Altri autori specialisti della materia psichica, hanno riscontrato che questa difficoltà è inclusa nella normale funzione mentale e che, in condizioni particolari, può fare la sua comparsa in chiunque.

    ‘In merito alle ultime concezioni della malattia mentale, Franco Basaglia sostenne che la follia è in definitiva una <condizione umana>, e quindi esiste nell’uomo come esiste la ragione1.

    Siccome la rabbia è l’emozione che sorge in reazione al dolore, quando colora l’intera personalità e appare come uno stato della mente, è probabile che sia indice di un’antica traccia d’esperienza. Che il suo consolidamento viene da un dolore primario; forse dal dolore che nasce dalla repressione dell’aggressività (adgredior2).
    Questo stato repressivo si può spiegare col fatto che alcune condizioni sociali, familiari, economiche ecc., impediscono la normale evoluzione delle persone. Creando sensi di colpa e disistima, queste condizioni bloccano la loro naturale vitalità così che, una volta resa deficitaria, la persona spinge le proprie energie su quegli aspetti della personalità che Bleuler vede nella comune condizione umana3. Così nelle persone più fragili e delicate, può essere messa a rischio la sanità psicologica quando vengono intaccate le funzioni dell’io e così, come forse i personaggi di Dostoevskij, l’impossibilità ad agire l’adgredior può produrre uno ‘stato mentale’4 rabbioso.

    Il presente lavoro sostiene questa ipotesi: cioè che un organismo inibito, originariamente impedito nell’espressione naturale dell’adgredior, può esitare in un’organizzazione panica e sviluppare reazioni violente autodirette. Questa inversione dell’espressione rabbiosa, che nel suo accumularsi si trasforma in violenza e procura esiti riconducibili al disturbo panico, può avvenire in tutte le fasi della vita delle persone più fragili: bambini, donne ed anziani.
    La rilettura dell’aggressività nei termini dell’adgredior necessita però di una ridefinizione.
    Intanto va distinta dalle emozioni perché, mentre per esempio la rabbia è una manifestazione emozionale che si accompagna a correlati corporei specifici e fissi in risposta ad un dolore o ad un pericolo, l’aggressività è la descrizione del modo in cui la rabbia è espressa. Infatti l’uso del termine ‘aggressivo’ può riferirsi alla quantità dell’energia impiegata nell’emozione oppure alla sua qualità. Così un’emozione priva di adgredior (di aggressività), è blanda o insignificante mentre se ne è carica viene di solito considerata violenta anche se è solo veemente.

    Con questo diverso significato l’adgredior andrebbe coltivato piuttosto che inibito così che , fin da piccol*, le persone imparino ad usarla. Invece, al contrario, il termine ‘aggressivo’ è sovradeterminato e, impiegato come sinonimo di violenza, è sovente sovrapposto alla rabbia.
    Una volta bloccata la rabbia, l’aggressività che la sostiene tracima e, carica di ulteriore dolore, sconforto e impotenza, si tramuta in violenza. Una volta formatasi, e non potendosi esprimere verso l’esterno contro le persone care, questa violenza è rivolta contro sé stessi lacerando i legami che tengono insieme le funzioni dell’io. È questo evento finale a generare quella deflagrazione che, definita panico, non si manifesta quando la violenza si indirizza verso l’esterno.

  • 2. La repressione dell’adgredior nel disturbo panico

    Dagli anni settanta, e fin quasi ai novanta, il panico si era imposto come una disfunzione quasi tipicamente femminile. Al suo esordio si parlava di Disturbo da Attacco di Panico (DAP) e gli eventi improvvisi, e apparentemente immotivati, erano descritti come una generica reazione, fisica e psicologica, a momenti di forte stress. Quei cambiamenti evolutivi che si accompagnavano a separazioni ed eventi relazionali faticosi, in alcune persone sfociavano in perdita di equilibrio (omeostatico) delle funzioni organismiche (saltava la coordinazione del respiro, dei movimenti oculari, del battito cardiaco, dell’equilibrio fisico e di tutte le altre funzioni, corporee e mentali)5. Nella condizione del panico le persone non si riconoscevano più nel complesso delle funzioni coordinate dell’Io; perdevano la capacità di controllo del proprio corpo e il senso di unitarietà cui erano abituate.

    Ancora oggi il disturbo panico non è riconducibile a cause specifiche e l’ipotesi più accreditata rimane quella che lo vede dipendere da problemi di separazione, quindi relazionali. Continua però a mancare una sua descrizione dinamica e funzionale.
    Un punto di vista che cerca di descriverne la formazione lo lega all’inibizione dell’aggressività e della rabbia. È una descrizione che, tenendo conto delle osservazioni di Bowlby6 sull’attaccamento, è stato proposto dall’autore del presene lavoro in un articolo di qualche anno fa7. La repressione dell’aggressività e della rabbia nelle prime fasi evolutive impedisce un normale processo di integrazione e coordinazione organismica e dà luogo a funzioni dell’io instabili e precarie. Di concerto si configurano fissazioni ai processi di non/integrazione primari che rendono difficoltoso l’accesso ai successivi processi di integrazione8. Per la descrizione era presa in prestito l’ipotesi integrativa di Winnicott9.

    Ora, mentre la regressione è un processo normale che, per esempio, si realizza anche in momenti di relax, quando ci si distende o si è massaggiati o quando ci si prepara per dormire10, la repressione dell’adgredior richiama la rabbia, che è la risposta ad un dolore, e che accumulandosi arriva ad assumere i tratti della violenza.
    Nelle persone sofferenti di panico il dolore e la rabbia repressi vengono sostituiti da comportamenti relazionali compensatori e riparatori. Questi sforzi relazionali le fanno apparire affidabili, competenti, responsabili e capaci di farsi carico di molte realtà, sociali e familiari, in maniera anche molto abile. Non di rado infatti il panico si mostra anche l’opportuno salvagente capace di assorbire e contenere disturbi più gravi le cui manifestazioni, di derealizzazione e depersonalizzazione, sono ben compensate.
    Ma l’abito panico rappresenta personalità solo apparentemente forti perché, in qualsiasi momento della loro vita, un qualsiasi evento può scatenare una grande deflagrazione e disintegrarle. Basta che l’evento, seppure inconsapevolmente, si agganci a una qualsiasi àncora generatasi nei primi anni di vita.

  • 3. La repressione dell’adgredior e il disturbo panico nei bambini

    Il panico può fare la sua comparsa anche nei bambini.
    Secondo il DSM-5 l’Attacco di Panico è una paura improvvisa che produce enorme disagio, fisico e psicologico, in un brevissimo lasso di tempo.
    Il DAP si accompagna di solito con il disturbo panico che si coniuga anche col timore di sperimentarne di nuovi. Ciò comporta la modifica del comportamento che si esprime negli atteggiamenti indicati come ‘la paura della paura’.
    I bambini che soffrono di disturbi di panico non sono pochi e si situano, con quelli diagnosticati ansiosi, tra lo 0,2% e il 10%11.

    Anche nei bambini, come negli adulti, i disturbi relativi al panico si manifestano con sintomi fisici e psichici e anche per loro i disturbi psicologici, meno facilmente riconoscibili come disturbi, sono anche meno accettati: sensazione di irrealtà e derealizzazione (essere distaccati dalla realtà e da se stessi), paura di morire o impazzire sono spesso sottovalutati se non derisi.
    Anche in loro gli attacchi sono improvvisi e imprevedibili e, come per gli adulti, le situazioni scatenanti non sono individuabili. Singolare è il fatto che possono verificarsi anche mentre il bambino è in condizione di riposo o sta dormendo. Il fatto che il panico possa verificarsi anche nei momenti di relax, oltre che in quelli di stress relazionale, depone a favore dell’idea che l’attacco di panico possa essere l’esito di una regressione ad uno stato evolutivo primario di non integrazione che, nel corso di momenti di allentamento delle difese, è vissuto come disintegrante piuttosto che come non integrato.

    La repressione dell’aggressività (adgredior) nei bambini, necessaria e imposta dalle esigenze educative e culturali, ha bisogno di essere modulata secondo parametri di sostenibilità soggettiva. Quando l’adgredior viene semplicemente negata, la reazione al dolore è la rabbia che, a sua volta confusa e interpretata come violenza, è negata dalle figure di accudimento. La disattenzione alla ‘sintonia interattiva’ può rivelarsi uno strumento in grado di spegnere la vitalità, l’irruenza e la combattività.
    Nel corso degli anni la continua sovrapposizione della violenza e dell’aggresività tende a saldarsi in una commistione difficile da districare. Quando in alcune occasioni i bambini fanno i capricci e rompono gli oggetti o in altre, si spaventano e diventano inconsolabili nelle loro richieste affettive, le figure di accudimento vivono l’impotenza che esprimono con un’ulteriore reazione rabbiosa. Queste reazioni ancora di più tendono a inibire i comportamenti espressivi delle emozioni dove, a quel punto, la paura la fa da padrona. Emerge un’unica possibilità: aggredire sé stessi.

    Questa violenza autodistruttiva verso i propri legami interni, in alcuni bambini si esprime con l’angoscia nei momenti di relax e di abbandono. Ciò accade perché i normali momenti abbandonici (quindi regressivi), insieme all’allentamento delle difese provocano anche un allentamento dei legami che tengono insieme le funzioni dell’Io. Se per quei momenti non esistono i presupposti relazionali che permettono l’allentamento e l’abbandono, il ritorno ai ‘sicuri’ vissuti di non integrazione delle prime fasi evolutive diventa spiacevole. In quei casi la regressione riporta agli stati di non integrazione primari dove la fantasia, l’onnipotenza e la distruttività sono vissuti con spavento perché le relazioni primarie non hanno saputo mettere in sicurezza le configurazioni egoiche che restano caratterizzate dall’incertezza.
    Questa ipotesi, formulata con l’uso delle teorizzazioni di Winnicott, non cambia se vista indossando gli occhiali della teoria polivagale di Porges. Le àncore affettive ed emozionali delle interazioni primarie, quando sono disfunzionali dissolvono il possibile ingaggio del sistema sociale e lasciano attivato il sistema simpatico (…di allarme). L’esito è un vissuto di dissoluzione che non può che essere catastrofico!

    Quali i rimedi?

    L’aggressività è quindi connaturata all’espressione delle emozioni e le connette come fosse contenuta nei vagoni del treno emozionale. Purtroppo poi accade che l’aggressività venga confusa con la rabbia e inibita così che, dopo essersi accumulata e diventata insostenibile, dilaga violentemente.
    L’aggressività nei bambini non andrebbe repressa perché è dalla loro capacità di modularla che prende forma la capacità di sentire, individuare e distinguere le emozioni che fanno capo alla formazione dell’Io12. Di converso, è la sua inibizione a stravolgere la possibilità di comprenderle.
    Il tentativo di svuotare le emozioni dall’aggressività, e pretendere che si sia emozionati in maniera calma e tranquilla, vanifica l’intento conoscitivo e discriminatorio delle singole emozioni che, se prive di carica affettiva perdono la caratterizzazione e non possono essere riconosciute. Dovendosi colorare di un gradiente energetico qualitativo, le singole emozioni richiedono di essere vissute in maniera aggressiva, profonda, diretta, viscerale e vitale. Solo dopo aver esperito questo tipo di vissuto emotivo si può avvertire il suo incarnarsi e solo allora diventa possibile con/dividere quello che si è provato e, infine, in una vicinanza emotiva e fisica con le altre persone, costruire i diversi significati di quello che si è provato.

    È in questo modo che i bambini imparano a modulare l’adgredior che compone le emozioni e arrivano a sentirsi legittimati ad esprimerle senza spaventarsi.
    Ciò che invece incide negativamente sull’identificazione dei vissuti e li confonde è la disattenta educazione infantile.
    Spesso il movimento aggressivo è represso sul nascere perché o non riconosciuto o perché lo si interpreta come rabbia e violenza. Accade per esempio quando ai bambini vengono ingiunti comportamenti che a lungo andare diventano stereotipati e abitudinari, quando vengono limitati nel movimento (fermo li, non ti muovere…), nell’espressione verbale (non interrompere mentre parla un adulto…), nel tono di voce (non parlare ad alta voce…), ecc.
    È la libera espressione delle emozioni, oculatamente modulata e calibrata nel tempo e nello spazio, a permettere ai bambini di maneggiare e gestire un proprio mondo emozionale e così creare quella interpretazione della realtà soggettiva che è in equilibrio con l’interpretazione degli altri e che sola può dare l’idea di vivere una stessa realtà, univoca e condivisa.

  • 4. La repressione dell’aggredior e il panico nelle donne

    Nell’attuale realtà sociale le donne acquisiscono più dei maschi (per convenzione culturale?) i tratti di una coartazione dell’espansività e di un’introiezione dell’aggressività. Per il fatto di detenere la caratteristica onnipotenza di dare la vita, non hanno bisogno di confliggere e competere nelle espressioni della vitalità sociale. In questo confronto le donne risultano tradizionalmente tendenti alla cooperazione anche se poi si convincono di evitare la competizione perché svantaggiate. Potrebbe allora darsi che le donne rivolgano alla configurazione panica piuttosto che alle manifestazioni violente, come la guerra e la produzione delle armi, la propria aggressività? E potrebbe darsi che sia perchè sono meno naturalmente predisposte alla distruzione dell’oggetto e più orientate alla sua preservazione?

    Tutto ciò per dire che le donne, malgrado le attuali spinte sociali che tendono a minimizzare le differenze di genere, nelle relazioni restano più capaci degli uomini di usare modalità aggressive piuttosto che violente. Al contrario gli uomini continuano a privilegiare modalità che mostrano un’evidente difficoltà ad individuare legittime espressioni maschili di adgredior che non ricalchino la violenza.
    Alcuni tratti di comportamento, imposti dai diversi ceti sociali alle donne, finiscono per apparire naturali espressioni di genere. Per esempio la fedeltà, la gentilezza, la sottomissione, la timidezza, il perbenismo, anche quando sono impliciti, sono pretesi e sanciti in maniera molto rigida per il genere femminile. Se qualcuna si permette un comportamento contrario, o anche modicamente alternativo, in quei contesti può essere additata come maschiaccio o strega o pazza, sciamana o santona13.

    Forse per esigenze storiche ed evoutive i due generi, femminile e maschile, hanno sviluppato una sorta di cecità per la lotta intestina arrivando a legittimare la sopraffazione dell’uno, il genere maschile, su quello femminile. Ambedue hanno permesso, a volte anche esplicitamente consapevoli, che la mancanza della capacità di emanciparsi venisse considerata un tratto connaturato all’essere femminile. L’imposizione di questa caratteristica, avvenuta per convenzione sociale, vede negata alle donne la libera espressione dell’insofferenza, della rabbia, della stanchezza nei confronti di tutto ciò che riguarda l’accudimento dei figli o dei genitori o dei mariti e compagni. Viene considerato innaturale manifestare stanchezza nei confronti dei familiari mentre è naturale, e quindi imposto e preteso, che da sole e per un innato istinto materno, sappiano come condurre con la gestazione, il parto, l’allevamento filiale e nei confronti di tutto ciò che la società reputa doveroso. Inutile dire che per questi oneri la naturale transazione economica è la gratuità.

    In questa finestra culturale il panico si è presentato come l’unica via d’uscita per molte donne. In certe occasioni è stato come un salvagente per continuare a nuotare nel mondo della ribellione senza rischiare di andare alla deriva e perdersi; in altre è stata l’unica occasione concreta di esprimere il malessere diffuso derivante dalla soppressione della naturalezza espressiva (adgredior). È stato un modo di esprimere quella rabbia che, nata dal dolore per la soppressione della propria vitalità e visceralità, si è rivolta contro sé stesse per impossibilità e/o incapacità a volgersi verso l’esterno.
    In realtà, quando il panico è comparso presentandosi come disturbo prevalentemente femminile, non è vero che era un altro modo in cui l’isteria si manifestava quanto piuttosto era un altro modo con cui la società colpiva le parti più fragili della sua composizione. Erano quelle meno tradizionalmente garantite e tutelate; quelle per le quali le espressioni rabbiose e rivendicative erano socialmente e culturalmente represse. Quelle per le quali ancora oggi, le più comuni rivendicazioni sociali suscitano reazioni di rifiuto da parte delle istituzioni e da parte dei compagni e partner; rifiuto che si concretizza in modo eclatante nel diniego del pieno controllo del proprio corpo.

    L’emancipazione femminile è costantemente sottomessa e, quando e se, anche alle neonate è riconosciuto il diritto alla vita, le diverse culture si organizzano sopprimendone i movimenti naturali e affermativi. L’adgredior viene sistematicamente repressa fino ad essere completamente bandita dal comportamento. ll tipicamente femminile, che come proiezione maschilista14 si nasconde anche nelle pieghe delle iniziative più meritevoli15, si avvale di logiche familiari e di gruppo che concordano implicitamente nell’inibire i movimeni naturali e spontanei. L’esito educativo della cultura imprime dentro il corpo delle donne il disconoscimento della propria aggressività e lo fa vestendo di perbenismo l’incarnazione di questa repressione che si realizza con specifiche tensioni muscolari, del volto, degli occhi, spalle, braccia e così via. Queste tensioni compromettono l’identificazione emozionale e condizionano l’interpretazione dei sentimenti. Alcune donne si persuadono di non provare affatto certe emozioni, oppure le confondono con altre più socialmente condivise, e si mostrano intolleranti specialmente con i propri tratti aggressivi perpetuandone la soppressione nell’educazione che a loro volta impartiscono.

    Anche la rabbia, che di solito è una reazione all’inibizione dell’adgredior, viene giudicata anormale specie quando è vissuta nei confronti dei figli, dei mariti, compagni e amiche, perché è una rabbia che stride, secondo un’idea creduta legittima, con i comportamenti da tenere nei ruoli di mogli e madri.
    La buona educazione familiare tende a sopprimere l’adgredior dall’attività corporea e, specialmente nelle donne, si incarna nel perbenismo delle forme verbali e del bon ton. È anche in questo modo che il campo educativo femminile viene invaso da configurazioni caratteriali improntate alla dolcezza, alla sottomissione, all’arrendevolezza, alla comprensione, alla sopportazione e a tutte quelle caratteristiche che alla fine non vengono più viste come modalità apprese, bensì come qualità naturali per le quali le donne possono essere considerate ‘carine’.
    Una volta sancitane la negazione, l’espressione dell’adgredior (energia vitale e voglia di vivere) viene interpretata come indice di violenza e si scontra con i sensi di colpa e di vergogna. Quando hanno la meglio, queste altre due emozioni ne prendono il posto al punto che l’adgredior può non essere più sentito nè riconosciuto come bisogno essenziale di movimento e relazione. Lentamente si converte in dolore tedioso (rabbia repressa).

    È negli spiriti sofferenti e fragili della società che trova rifugio questa risposta, nelle persone dove il dolore, spesso incomprensibile e ingiusificabile, diventa quella rabbia che aggredisce i legami tra le funzioni dell’Io. Aggressione autodiretta che oggi vivono anche molti uomini. È lo stesso tipico processo in atto negli atteggiamenti violenti e sadici, quelli che si camuffano anche con risvolti masochisti e che per questo, ancora una volta, vengono definiti “tipicamente femminili”. Sono questi i comportamenti che scopriamo attivi nei fragili e sensibili personaggi di Dostoevskij: Ho mal di fegato? Tanto meglio, mi faccio ancora più male!
    Ancora l’autoaggressione, ancora il sé aggredito e ancora parti distorte che non vengono riconosciute come parti ‘non integrate’ di sé, ma che vengono confuse con l’esito del vissuto ‘disintegrante del sé’. Sono quelle parti vissute come estranee, ed esperite come dissociate e non appartenenti al sé originario, che deve essere sempre integro e ben funzionante, che sono spesso proiettate sul mondo esterno per costruire una risposta confermativa alle proprie false credenze.

    Queste laceranti pressioni interiori colorano il carattere panico e spingono le persone a impegnarsi per tenere insieme le parti e consentire alla relazione di sopravvivere. Ciò in nome di una coerenza emotiva, per una logica d’amore e affetto, per linearità comportamentale, per fedeltà alle promesse d’amore e per contenere le passioni. Le persone che soffrono di panico non vivono questi comportamenti come spontanei e naturali ma li vestono quotidianamente come fossero vestiti psicologici. Li indossano sforzandosi di tenerli puliti badando ai sentimenti irruenti e modulando il comportamento a seconda delle contingenze sociali. Sono quindi anche quelli che cercano di sottrarsi alle crisi evolutive ed esistenziali e le sfuggono per una rabbia antica. Quella stessa che, quando supera la capacità di contenimento, le precipita nel baratro delle componenti corporee la cui integrità si dissolve; quella dove l’orientamento si perde in un mondo mentale disarticolato e in cui sopravvive solo la paura della mancanza del collante che le tiene unite, coordinate, coerenti, fluide e controllate. Quella rabbia dove il rischio è che l’Io si dissolva.

  • 5. Il panico negli anziani e la paura della sparizione

    Come si è visto il panico si accompagna sempre ad una paura che, in quanto tale, invade completamente la mente! Ma l’invasione della mente da parte di grandi emozioni è un’esperienza piuttosto comune come lo è l’identificarsi con i propri pensieri, le idee, i concetti e le immagini prodotte dal cervello. In realtà ci si identifica con i prodotti della mente così come ci si identifica con il corpo e le azioni svolte. Ci si identifica col modo di camminare, di parlare, gesticolare e in genere si è convinti di ‘essere’ tutte le funzioni che l’organismo svolge.
    Anche quando non ci si sofferma col pensiero, in genere si ‘sa’ che le funzioni dell’organismo sono azioni in corso, e cioè ‘atti comportamentali’ piuttosto che oggetti e che, come tali, non esistono prima di realzzarli. Il fatto quindi che i comportamenti appartengano alla categoria delle azioni piuttosto che degli oggetti, e che appartengano ad una realtà transitoria, comporta il vantaggio di potersi identificare con azioniche hanno un orientamento strategico e possono quindi cambiare a seconda dei contesti. Lo svantaggio è che quei comportamenti sono soggetti alla legge del tempo e, appunto col passare del tempo, perdono l’integrità e la flessibilità. Decorsa l’epoca d’oro dell’età di mezzo, tutte le attività umane diventano faticose e anche parlare, pensare, immaginare o spostarsi anche di poco nello spazio, tende a diventare difficile. Nell’età senile la perdita di colpi si fa incisiva e frequente. Si scopre di essere imperfetti e che è sempre più difficile recuperare le funzioni faticosamente costruite dall’infanzia. Queste perdite sono vissute come grosse ferite narcisistiche che spaventano e avvertono di un disastro imminente: un decadimento dell’Io se non la sua sparizione.

    Per comprendere pienamente il vissuto emergente in questo contesto è necessario considerare il pronome ‘Io’ non solo come l’accostamento di due lettere ma la rappresentazione dell’esperienza principe dell’evoluzione umana. Essa consiste nell’insieme dei processi più importanti della crescita che sono retti da due funzioni basilari: movimento e relazione (vedi anche la nota 14).
    Dopo il pasaggio per l’età di mezzo, queste due funzioni tendono a ridursi per motivi fisici, dovuti all’invecchiamento (vero e proprio) dei tessuti muscolari, tendinei e articolari, e per motivi sociali dovuti all’avvicendamento generazionale in cui più si invecchia e più ci si ritrova soli per la scomparsa progressiva dei coetanei.

    Nell’esperienza del processo d’invecchiamento, la graduale sparizione dell’Io può essere vista come il processo d’inversione della sua formazione. L’inversione evolutiva è un naturale processo decostruttivo che si basa sulla capacità di regredire, nel senso di tornare indietro sul processo evolutivo, quando è ncessario modificare un comportamento. Ma quando questo regresso avviene per degrado evolutivo, vuoi per età anagrafica o per motivi di malattia, l’Io perde anche la capacità di ri/configurarsi. Poi, a seconda degli accadimenti e degli stili di vita, anche quando il degrado può essere rallentato, in ogni caso non può essere evitato. Tutto ciò determina quasi un senso comune per cui, gli ultimi periodi di vita, rappesentano un pò per tutti come il ritorno all’originara condizione di ‘non/integrazione’ organismica.
    Questa condizione di irreversibilità dagli anziani può essere vissuta come l’ombra di una condanna in cui, ogni progressiva mancanza funzionale, fisica e psichica, può diventare un sintomo che ogni volta segna la conferma della disintegrazione in corso. Ogni mancanza è un poco di ‘Io’ e di ‘Me’ che se ne vanno. Con questa sparizione cresce anche la consapevolezza di un sempre più improbabile recupero. Perché non c’è più tempo, non c’è più resilienza, non c’è più forza…!

    Il ritmo della sparizione aumenta con l’età come suggerisce Yalom16 con la metafora della sala cinematografica: ognuno entra dal fondo da piccolo e occupa i primi posti a sedere. Col passare degli anni scala di posto e si avvicina allo schermo come si avvicina alla vecchiaia fino ad uscire di scena. Con l’avvicinarsi dell’anzianità diventa sempre più precipitosa l’approssimarsi delle ultime file e più s’invecchia più velocemente e più frequentemente ci si ammala. Le articolazioni iniziano a soffrire degli sbalzi di temperatura e diventano meno fluide. I ragionamenti si semplificano, i discorsi perdono di complessità. I legami logici faticano ad essere lineari e l’architettura mentale si semplifica e perde la sua ricchezza e fascino. La memoria a volte si smarrisce e perde la precisione dei contatti e dei riferimenti nei quali si riconosce. Le lacune aumentano e nel nuovo processo evolutivo cresce quel disordine che tanto disorienta.

    In questa fase di vita la graduale perdita di integrità, fisica e psichica, segna nel corpo di ogni persona una traccia di impotenza e le piccole malattie, che si accumulano e che, anche nella loro insignificanza si sommano, come una leggera zoppìa o un lieve tremore, possono diventare il segno tangibile e personale di un salto verso il processo disintegrante.
    Il vissuto di questa condizione può essere molto vicino al panico inteso come quell’esperienza in cui le persone scoprono l’impotenza nei confronti del rischio dissolutivo.
    Anche nel panico compare la paura di non potere più essere quell”Io’ in cui ci si riconosceva e non potere più svolgere in maniera autonoma le semplici e quotidiane funzioni vitali. È quella condizione che si chiama ‘paura della paura’ in cui si paventa e si teme il momento in cui non si saprà/potrà più badare a se stessi. È quella condizione molto simile a quell’altra, vissuta nel decorso evolutivo degli anziani, in cui si può rischiare di morire stando soli e di essere ritrovati, una volta cadaveri, solo per caso.

    Che la solitudine degli anziani sia oggi un dato di fatto lo testimonia l’aumento delle associazioni che ormai in televisione chiedono ‘lasciti testamentari’ piuttosto che piccole somme di danaro. Ma anche gli studiosi si stanno sensibilizzando a questa fase della vita. È stato elaborato il Frailty Index (di Kenneth Rockwood) per la misurazione della fragilità negli anziani e si sono ridefiniti gli intervalli evolutivi per cui oggi le persone ‘diversamente giovani’ possono essere: ‘giovani anziani’ (64/74 anni), ‘anziani’ (75/84 anni), ‘grandi vecchi’ (85/99 anni) e ‘centenari’.
    Una maggiore attenzione di cura alle diverse fasi evolutive ha permesso il progredire della biomedicina e il conseguente allungarsi della sopravvivenza. Se da un lato queste condizioni si stanno rivelando vantaggiose perché permettono una vita più lunga, dall’altra generano nuove esigenze e bisogni relazionali. Purtroppo le ricerche specifiche latitano come carenti sono anche i servizi intermedi previsti dalla sanità pubblica per la salute fisica e mentale. Molte strutture per anziani prevedono l’ammissione solo di persone autosufficienti mentre quelle che sopravvivono senza cari, isolate, ammalate o inabili, possono fidare solo nelle associazioni di volontariato. Di contro la modernizzazione rende le famiglie sempre più mononucleari e autonome e riduce la loro necessità di avvalersi dei parenti anziani.
    C’è un gap sempre più ampio tra le richieste generate dai bisogni indotti dalle nuove acquisizioni tecniche e scientifiche e le risposte della sanità pubblica che sembra sempre più preda strumentale di politiche opportunistiche. La società sembra indifferente rispetto alla cresente solitudine degli anziani e l’impressione è di un crescente vuoto che le famiglie stentano a colmare. Ai volontari e alla fortuna il compito di rispondere alle sempre più numerose richieste di assistenza e di attenzione per le patologie fisiche e mentali di queste ultime fasi della vita.

    Allora, ciò che è possibile intuire oggi del vissuto degli anziani e della loro vita, non è tanto la paura della morte che, bene o male, quando ci sarà lei non ci saremo noi, ma è la paura della dissoluzione, della sparizione di ciò che si ‘è’ stati e che spinge a chiedere aiuto per il rischio che, anche se tutti lo vivono, resta sempre personale, si possa entrare nell’età senile sempre più soli, anche se non da soli, e ritrovarsi parcheggiati in luoghi/non luoghi.
    Nelle poche ricerche citate la fragilità degli anziani è spesso descritta come ‘una disorganizzazione caotica dei sistemi fisiologici’, che corrisponde abbastanza all’idea avanzata nel presente lavoro, cioè quella della disintegrazione che si accompagna ai vissuti di ‘sparizione dell’Io’. Probabilmente è per questo che ultimamente gli anziani si rivolgono con maggiore frequenza ai gruppi AMA per il panico. Perché intravedono in questo disturbo una paura analoga alla loro, quella paura di dissolversi dell’Io a cui viene dato uno spazio legittimo solo in questi gruppi.

    1. Basaglia difese comunque la concezione socio genetica della malattia mentale, una malattia in stretta relazione con le strutture della società, specie in epoca attuale. Una società consumistica, frenetica, alienante e conflittuale non fa che favorire l’emergere del disagio mentale, soprattutto ad allontanare e isolare coloro che non ce la fanno a reggere i ritmi della produzione industriale e la frustrante conflittualità sociale in cui tutti siamo immersi pagando alti costi umani, anche solo in termini di nevrosi. Invece dell’internamento in manicomio, precisò infine Basaglia nel pieno della lotta contro tale istituzione “totale”, la terapia più importante per affrontare la follia è la libertà. (Giacomo L.Vaccarino, ‘La coscienza infelice‘, Ronchetti & Co., 2021,Torino, p. 247). ↩︎
    2. La parola aggressività deriva dal verbo adgredior, composto da ‘a’ e ‘gradior’, significa andare, procedere, avanzare, camminare, aggredire; la preposizione ‘ad’ significa verso, contro, allo scopo di. Quindi ‘Adgredior’ indica l’azione di avvicinarsi a qualcuno o qualcosa, con intenzioni che possono essere buone (tentare di accattivare) od ostili (attaccare, assalire, accusare). Può spingere l’individuo ad andare oltre sé stesso, per rafforzarsi e arricchirsi, o può portarlo a difendersi e rinchiudersi nei propri confini. (Luigi Giorgio Caputo) ↩︎
    3. Come Manfred Bleuler ha sostenuto, una vita schizofrenica latente è nascosta nella condizione umana. Nelle situazioni di profonda solitudine, nell’esperienza mistica, nel pensiero autistico, nei sogni, nella esperienza estetica si possono osservare esperienze sigillate da analogie sotterranee con le realtà psicotiche. Nella schizofrenia queste esperienze, che si svolgono anche nella condizione umana “normale”, si scompensano ed escono dagli argini abituali; tematizzando infine strutture di significato profondamente estranee alle nostre. (id., p.249, tratto da E. Borgna: ‘I conflitti del conoscere. Strutture del sapere ed esperienza della follia‘, p. 71-73, 81, Feltrinelli, 1979). ↩︎
    4. Lo stato mentale può dipendere e includere le diverse funzioni dell’io per cui, anche le emozioni, possono essere vissute all’ombra dello stato mentale che diventa ‘Mindset’, lo stato in cui la mente si orienta verso un particolare set di aspettative … la chiave di lettura con cui leggiamo il presente ↩︎
    5. Il processo di coordinamento è un processo elementare che l’organismo realizza fin dalle sue origini. Con l’integrazione, di cui si parlerà in seguito, la coordinazione vale anche per gli organi viscerali.Valgacomeesempio le note di Porges a propostio del ‘sistema di coinvolgimento sociale’: ‘A livello funzionale, il sistema di coinvolgimento sociale emerge da una connessione cuore/faccia che coordina il cuore con i muscoli del viso e della testa. La funzione iniziale del sistema è quella di coordinare la suzione, la deglutizione, la respirazione e la vocalizzazione. Una coordinazione atipica di questo sistema all’inizio della vita è un indicatore di successive difficoltà nel comportamento sociale e nella regolazione emotiva.’, (Stephen W. Porges, ‘Sicurezza polivagale’, GiovanniFioritiEditore, 2023, p.7) ↩︎
    6. ‘Bowlby rileva come il sistema di attaccamento implichi continue reazioni emozionali, reattività che consegue da una serie di condizioni. Nelle prime troviamo la gioia, il senso di sicurezza e l’attenuazione (o la scomparsa) della sofferenza (fisica o psichica) determinata dalla vicinanza della figura di attaccamento. Nelle seconde la rabbia e la paura conseguenti alla possibile assenza o scomparsa di tale figura, ed infine la tristezza quale conseguenza della sua mancanza (specialmente se per periodi prolungati).’ (Roberto Infrasca, ‘Il Disurbo da Attacchi di Panico‘, FrancoAngeli, 2011, p. 62) ↩︎
    7. G. Ciardiello, ‘Genesi, Diagnosi differenziale e Terapia del Distrurbo da Attachi di Panico’, in ‘Approfondimenti’, sito LIDAP ; ultima consultazione 25/01/2024 ↩︎
    8. ‘L’integrazione – l’equilirio tra differenziazione e collegamento – costituisce la base di una regolazione ottimale che ci consente di muoverci fluidamente tra caos e rigidità, il processo fondamentale che ci aiuta a stare bene e a essere felici.’ (Daniel J. Siegel, ‘Diventare consapevoli’, Cortina editore, 2019, p. 22) ↩︎
    9. Si può presumere teoricamente che, all’origine, la personalità sia non integrata; e che, l’integrazione della personalità      è un ben noto stato psichico, e la sua psicopatologia è molto complessa. L’esame di questi fenomeni in analisi, tuttavia, mostra che lo stato primario di non/integrazione è alla base della disintegrazione, e che il ritardo o la mancanza dell’integrazione primaria predispone alla disintegrazione in quanto regressione od in quanto risultato di una serie di fallimenti in altri tipi di difesa.  (Donald W. Winnicott, ‘Lo sviluppo emozionale primario‘, in: ‘Dalla pediatria alla psicoanalisi‘, by Psycho G. Martinelli ed., p. 180) ↩︎
    10. Nella vita adulta, l’integrazione è vissuta in tutte le accezioni del termine, compresa quella di integrità. Le persone sane possono sopportare la disintegrazione in stato di riposo, di distensione e nel sogno, e anche il dolore ad essa associato, soprattutto grazie al fatto che lo stadio di rilassamento è legato alla creatività: gli impulsi creativi appaiono o riappaiono durante lo stato di non integrazione. È per questo che le difese organizzate contro la disintegrazione privano l’individuo delle condizioni necessarie all’impulso creativo, impedendo così la vita creativa. (Donald W. Winnicott, ‘Dal luogo delle origini‘, Raffaello Cortina editore, 1990, pp. 19/20) ↩︎
    11. I disturbi d’ansia emergono in circa il 3% dei bambini di 6 anni e in circa il 5% dei ragazzi adolescenti e nel 10% delle ragazze adolescenti. ↩︎
    12. L’integrazione porta il bambino dal primigenio stato unitario al riconoscimento del pronome personale “io” e al concetto del numero uno, rendendo così possibile l’”io sono”, che dà senso all’”io faccio”. (Id. Winnicott, 1990, p. 19). ↩︎
    13. È evidente quanto si sia, purtroppo, ancora molto vicini alle affermazioni di Reich dei primi decenni del secolo scorso in cui riteneva che le persone erano incapsulate in un’armatura (muscolare e cognitiva) che gli impediva di agire fluidamente le proprie espressioni emozionali. Questa corazza, alimentata e forgiata dalla cultura di appartenenza,che dovevaservire per proteggere l’organismo dagli attacchi esterni, nella realtà impediva anche l’espressione dell’energia dall’interno verso l’esterno. In tal modo la società, tramite la cultura, ingabbiava le emozioni espansive e, insegnando a difendesi, insegnava anche ad isolarsi: ‘Il carattere consiste in una alterazione cronica dell’Io che si potrebbe definire indurimento. … il suo modo di reagire si fonda interamente sul principio di piacere-dispiacere. In situazioni spiacevoli l’armatura si irrigidisce, in situazioni piacevoli si allenta.‘ (W. Reich, ‘Analisi del carattere‘, SugarCo, V ed., 1989, pp. 186/187). ↩︎
    14. ‘Il/la bambin* utilizza con successo i Cinque movimento di sviluppo; spingere via, protendersi verso, tirare verso di sé e abbandonarsi alla connessione emotiva con i genitori.’ (K. Minton e M. Puliatti, ‘La narrazione del corpo‘, p. 78, Mimesis, 2018). ↩︎
    15. In questa sperequazione di genere le filosofie orientali riecheggiano quelle occidentali. Colpisce come il  maschilismo possa imporsi come norma sovraculturale ed emergere impunemente in tutte le parole; anche in qelle che vorrebbero tradurre significati unificanti come le seguenti, tratte dal piccolo testo di H. Borel dal titolo ‘Wu Wei’: ‘Allo yang è associata l’attività, la positività, il maschile; allo yin la passività, la negatività, il femminile.‘ (p. 87). In realtà il femminile non è passivo né tantomeno negativo. Anche l’abbandono, l’apertura, la ricettività, l’accoglienza sono normali attività toniche che richiedono attivismo biologico. In tal senso il contrappunto all’attività di genere maschile è quello femminile. Espressioni complementari quindi ma non contrarie, come la traduzione implicherebbe.  ↩︎
    16. Irvin D. Yalom ‘Psicoterapia esistenziale‘, Neri Pozza ed., 2019. ↩︎

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