Come stanno le persone con anamnesi di attacchi di panico al tempo del coronavirus, dal punto di vista del loro equilibrio?
In generale, il problema non è diminuito per quanto alcuni non abbiano più fenomeni acuti come le precedenti crisi di panico avendo circoscritto la loro inquietudine nel timore di contrarre il coronavirus dimenticandosi dei disturbi di un tempo. Si registra, complessivamente, un aumento degli attacchi di panico dal momento che il coronavirus presenta molte fra le caratteristiche del panico stesso: anzitutto, a differenza di un pericolo immediato e ben visibile, il virus non è un oggetto visibile e non si sa con certezza chi siano i portatori del virus stesso, inizialmente considerati soltanto i cinesi o coloro che avevano avuto contatti con la Cina; inoltre, il terrore coronavirus non è un fenomeno d’angoscia soggettivo e singolare ma costituisce un problema collettivo come, già per Freud, è tipico del timor panico; infine, la paura del coronavirus non costituisce una vera e propria fobia originata dall’inconscio tanto da rendere l’elemento fobico il rappresentante di un’altra scena che sfugge alla coscienza ma costituisce piuttosto un’amplificazione di una paura reale e relativa a un’epidemia clinica attuale che si diffonde in tutto il mondo.
Oggigiorno, la vera difficoltà sta nell’attraversare queste sfide senza farsi travolgere. D’accordo, il coronavirus non è un’influenza ma nemmeno la peste di manzoniana memoria. Eppure da alcune settimane è diventato l’argomento principe delle sedute. Così, chi stava migliorando durante la cura, rischia di aggravarsi. E un disturbo quale tosse e raffreddore viene visto come l’inizio della fine, come segnale di sicuro contagio. Come detto, i pazienti non sono molto diminuiti, forse perché lo studio privato non è analogo al Pronto Soccorso dove si teme venire a contatto con potenziali infetti. In seduta, il dialogo avviene direttamente fra paziente e analista. Una volta rispettate le norme igieniche e le accortezze prudenziali prescritte, l’analisi prosegue. Ho comunque avviato, analogamente a molti colleghi, delle sedute telefoniche per rispettare le legittime preoccupazioni di coloro che preferiscono rimanere il più possibile al loro domicilio.
Viviamo in una società liquida e social, dove l’individualismo regna sovrano. Un rischio relativo al coronavirus è di renderci ancora più soli, come monadi isolate. Ora, per salvare la salute, dobbiamo socializzare poco. Niente strette di mano. E se si va al supermercato lo si fa per fare la scorta in vista di tempi ancor più duri, come si è visto in queste scorse settimane. Già nei tempi normali cui speriamo di tornare presto, la gente vive più sul web che nel mondo reale; questo avviene anche fra i giovani per le prime esperienze sessuali: si tende a fare sesso in webcam prima che dal vivo. Siamo nella società del “paradigma immunitario”, descritta da Roberto Esposito, in cui l’altro rischia di essere vissuto sempre più come un pericolo; prima era l’islamico o l’arabo percepito come potenziale terrorista, ora la ricerca del capro espiatorio si aggrava e l’untore può essere ovunque e chiunque.
Pian piano dovremmo essere capaci di rovesciare la situazione, rivalutare l’incontro, rieducarci ad avere pazienza, a tollerare l’attesa, a non pretendere tutto e subito. Se devi rinviare il soddisfacimento di un desiderio, sei frustrato; ma è così che si cresce. L’equilibrio comporta sacrifici e, come ci insegna la psicoanalisi, la salute mentale si coglie nella capacità di stare in un legame, sia esso lavorativo, sociale o affettivo. La nostra società ci spinge invece verso una dimensione “immunitaria” che va contro i legami sociali e questo è un grosso rischio.
Dott. Roberto Pozzetti